Sono ben 14 i Dipartimenti dell’Università di Bologna premiati dal fondo per i dipartimenti eccellenti previsto dalla legge di Bilancio 2017.
Si tratta di un risultato – che porterà ai Dipartimenti Unibo selezionati un finanziamento totale di 113,8 milioni di euro nell’arco di un quinquennio (l’8,4% del finanziamento totale che ammonta a 271 milioni di euro annui) – del quale mi pare possa far vanto, oltre all’Università di Bologna, anche la città che la ospita, poiché, per fortuna, l’Università non è una monade: si iscrive in un contesto da cui trae energia, sollecitazioni e linfa vitale e a cui, auspicabilmente, dovrebbe trasferirne sapere, idee e strumenti utili a migliorare la vita di una comunità, ivi compresa quella cittadina.
I Dipartimenti eccellenti sono 14: Architettura, Chimica “G. Ciamician”, Filologia classica e italianistica, Ingegneria civile chimica ambientale e dei materiali, Ingegneria dell’energia elettrica e dell’informazione “G. Marconi”, Lingue letterature e culture moderne, Psicologia, Scienze aziendali, Scienze biomediche e neuromotorie, Scienze economiche, Scienze mediche veterinarie, Scienze politiche e sociali, Scienze e tecnologie agroalimentari nonché, ultimo ma non per ultimo, il Dipartimento di Scienze giuridiche del quale ho il piacere di far parte.
Questo risultato – come ha giustamente sottolineato il Rettore Ubertini – “premia l’elevata qualità della ricerca, collocando l’Alma Mater al vertice a livello nazionale per numero di Dipartimenti finanziati”. Un successo che arriva grazie a punteggi molto elevati sia relativamente alla valutazione della qualità della ricerca, sia sul valore dei progetti presentati”.
Sul portale di Unibo si legge, inoltre, che “i fondi saranno destinati a rafforzare e valorizzare l’eccellenza della ricerca, con investimenti in capitale umano, infrastrutture di ricerca e attività didattiche di alta qualificazione”.
Ebbene, vorrei non ci fermassimo ai meritati complimenti ad Unibo, e ci spingessimo a chiedere e chiederci chi fa ricerca nell’Università di Bologna.
In parte i progetti e i prodotti della ricerca sono frutto del lavoro del personale strutturato, ci mancherebbe. Ma – vi prego di credermi – chiunque abbia preso parte anche solo per un anno, un mese o una settimana alla vita di un dipartimento sa che non è soltanto così.
Nel 2016, circa la metà degli assegnisti totali di Unibo (ben 514 su un totale di 1143) afferivano ai 14 dipartimenti d’eccellenza (su 36 dipartimenti in totale).
Se non fosse chiaro, intendo dire che i dipartimenti di eccellenza hanno più precari della ricerca degli altri: sono questi ultimi che collaborano alla stesura dei progetti, alle ricerche, alla vita dei laboratori di ricerca d’ingegneria, di chimica, di scienze biomediche ecc.
L’Università di Bologna, per vero, ha più assegnisti di tutte le altre università d’Italia, sia in termini assoluti sia relativi.
Un anno fa, nelle università italiane, gli assegnisti erano quasi quattordicimila – precisamente 13.946 – un decimo dei quali nella sola Unibo che, tuttavia, pur essendo una grande università, non costituisce un decimo del sistema universitario italiano, bensì un quarantesimo.
Insomma, siamo eccellenti anche perché disponiamo di una quantità abnorme di ricercatori precari. O, se preferite, se da un lato siamo l’Università con una qualità della ricerca tra le più elevate d’Italia, dall’altro siamo anche quella con la ricerca più precaria d’Italia.
Avendo più fondi di altri atenei, possiamo bandire più assegnisti di ricerca; ma dobbiamo sapere che – come si legge sul sito dell’ADI (Associazione dottorandi e dottori di ricerca Italiani) – oltre il 93% di questa forza lavoro precaria è destinata ad essere espulsa. Detto altrimenti, tra coloro che partecipano alle attività di ricerca, meno di uno su dieci ha l’occasione di sfuggire all’economia della promessa, mettendo realmente a valore lo scambio consueto “presente contro futuro” (o meglio: un lavoro gratuito oggi in cambio di un lavoro retribuito in futuro).
È in questa “economia della promessa” che s’iscrive una recente vicenda di cui si è parlato sui media: è il caso del bando per lavoro volontario presso la Biblioteca del dipartimento di Storia, in scadenza a fine gennaio.
Si tratta di un bando per attività utili al normale funzionamento di una qualunque biblioteca: dal prestito libri all’assistenza alla consultazione, fino alla restituzione e sistemazione dei materiali bibliografici.
Sul bando ci sarà pur scritto che si tratta di mansioni diverse rispetto a quelle rese dal personale dipendente ma, da giuslavorista, lasciatemi dire che così come non basta scrivere su un contratto denominato di lavoro autonomo che un’attività lavorativa è resa senza vincolo di subordinazione per salvare quel contratto dalla più opportuna riqualificazione giudiziale, allo stesso modo non basta parlare di lavoro volontariato per escludere che si tratti, nei fatti, di volontariato sostitutivo, ossia di lavoro gratuito fornito in sostituzione di lavoro regolarmente retribuito, per il regolare funzionamento di una biblioteca.
Con l’obbiettivo di “fare curriculum” si dice, in casi simili, nei segmenti più malati del settore privato. “Per imparare e ricevere al termine delle attività un attestato”, ha detto, in questa circostanza, la prorettrice per le risorse umane di Unibo.
Ebbene, mi pare lecito chiedere che l’Università di Bologna approfitti di questo spiacevole incidente per prendere una posizione pubblica contro il lavoro gratuito e contro ogni forma di volontariato sostitutivo.
L’Università di Bologna ha, infatti, l’opportunità di rivendicare la propria natura di università di qualità, precisando che, in un’università di qualità come quella bolognese, il lavoro si paga.
Sempre. Sembrerebbe scontato. Purtroppo non lo è più.