di Paola Ziccone
C’è una distanza enorme e via via crescente tra la sorte degli individui portatori di diritti e la possibilità che questi individui possano poi essere individui in qualche modo promotori, se non padroni del proprio destino, e in grado di fare le scelte che hanno veramente a cuore.
Questa distanza si fa sempre più marcata, e da qui si generano all’interno del tessuto sociale effetti sempre più velenosi: la rabbia, la deresponsabilizzazione, l’indifferenza, la paura dei cittadini, la criminalità.
Ora questo abisso non può essere colmato dai soli sforzi individuali, né dai mezzi e dalle risorse disponibili nell’ambito della “politica della vita”. Colmare il divario fra l’individuo portatore di diritti e quello fruitore di reali opportunità è compito della Politica.
Anzi possiamo forse dire che il divario si è prodotto e approfondito proprio a causa della politica: questa ha inopinatamente scelto uno svuotamento dello spazio pubblico, e in particolare dell’agorà, della piazza, ossia quel sito intermedio tra pubblico e privato in cui la politica della vita incontra la politica con la P maiuscola, in cui i problemi privati vengono tradotti in questioni pubbliche e si cercano, si negoziano, si concordano soluzioni pubbliche per le difficoltà private.
Un tempo si trattava di difendere l’autonomia del privato dalle truppe avanzanti del pubblico, dal dominio dello stato onnipotente e impersonale. Oggi, al contrario, si tratta di progettare una difesa dello spazio pubblico in via di estinzione. Si potrebbe anche dire che è sempre più necessario tornare ad ammobiliare, ad abitare uno spazio pubblico che si va velocemente svuotando a causa della ritirata che avviene su entrambi i fronti: l’uscita del cittadino interessato e la fuga delle istituzioni democratiche da un territorio che è diventato, all’opposto, uno spazio esterno, straniero.
Se lo spazio pubblico è sempre più svuotato di questioni pubbliche e non svolge più il suo vecchio ruolo di luogo d’incontro e di discussione di difficoltà private e pubbliche, l’individuo non riesce più a trasformarsi in un cittadino realmente dotato delle risorse indispensabili per un’autentica determinazione di sé.
Occorre pertanto creare spazi per ricostruire cittadinanza, agorà, messa in comune delle capacità dei singoli e, allo stesso tempo, suscitare desiderio di appartenenza a un luogo e di condivisione delle molteplicità e peculiarità.
Per farlo bisogna anche imparare a ribaltare quegli schemi che ci rendono quasi dei colonizzatori, dei teorici che fanno progetti “su” e non “con” le persone, che mettono sempre il centro della città al centro dell’esistenza delle vite di tutti.
L’obiettivo non dovrebbe essere quello di creare nelle periferie una forza attrattiva verso il centro, con il risultato magari di creare parimenti la frustrazione di chi non può spostarsi dalle periferie, ma piuttosto, dovrebbe essere quello di portare benessere e umanità ovunque abita un cittadino, anche nei luoghi più emarginati, con il contributo, l’accordo, la negoziazione di tutti coloro che compongono la comunità.
Mi sembra pertanto necessario intanto:
riaccordare, incontrandoci nelle agorà, il nostro linguaggio di modo che sia inteso e vissuto da ciascuno ( uomo, donna, giovane, anziano,….) un significato condiviso di città pubblica
portare il centro nelle periferie, sia concretamente che metaforicamente (mostre, biblioteche, ludoteche, trasporti, giardini…)
imparare a fare vera negoziazione di azioni dei cittadini a favore del pubblico, incrociandole con le prestazioni del pubblico a vantaggio dei cittadini (banche del tempo, cogestione di spazi e di attività…)
imparare a considerare e praticare come ricchezze quelle che attualmente vengono considerate problematicità e da qui partire per fare progetti per tutti (carcere, scuole, quartieri ghetto, minoranze linguistiche o culturali).