Finalmente un’altra mamma musulmana che rasa a zero i capelli della figlia perché non porta il velo. Era da troppo tempo che non usciva una notizia del genere. Da mesi le locandine del Carlino non riuscivano a far altro che esibire rassegnate l’annuncio di qualche scontro tra studenti e polizia, l’immancabile anarchico francese che si manteneva preparando bombe a destra e manca (e che poi puntualmente viene scagionato perché non centra nulla), questo abulico Bologna che proprio non riesce a metterla dentro e poco altro, il solito barbone che decide di crepare a fine inverno in qualche angolo di strada o la tossica fuori porta che stramazza in un vagone in disuso su qualche binario morto alla stazione. Poi finalmente arriva lei… la strega bengalese che impedisce alla figlia di vivere e vestire all’occidentale. Una manna dal cielo, tutti ad esultare: miliardari, proletari e piccoli borghesi, salviniani e pentastellati, piddini renziani e piddini orlandiani. Un enorme sospiro di sollievo che attraversa l’intero paese: finalmente un’altra prova che noi siamo migliori di loro. Più avanzati, più moderni, più libertari, più eterni.

Dobbiamo molto a quella madre, senza il suo gesto non avremmo scampo, le nostre miserie appese dappertutto non potremmo certo far finta di non vederle. Altrochè muri, abbiamo bisogno di loro come del pane. Spalanchiamo le frontiere, facciamoli venire tutti qui, soprattutto quelli ignoranti, maschilisti e cattivi, con mogli analfabete e sottomesse al seguito. Sono l’unica chance che abbiamo per non essere costretti a guardarci allo specchio ogni mattino e vederci dentro le nostre di madri, costrette fino all’altro ieri a nascondere i pantaloni a casa dell’amica più grande.

E magari ti potrebbe anche capitare quel ch’è successo a un amico, pure lui sorretto da una visione del mondo comodamente poggiata su stereotipi ampiamente testati. Un giorno conosce per caso una donna col fazzoletto, gli piace, riesce ad avvicinarla e in quel momento non sa far altro che chiederle con chi è sposata. Lei lo guarda stranita, gli risponde che è nubile, non solo, non ha nessun fidanzato e neanche lontanamente la sfiora l’intenzione di accasarsi. E quell’imbecille anziché mollare, insiste: e tuo padre? Che dice tuo padre? A questo punto lei comincia a guardarlo infastidita: ma io non l’ho da tempo un padre…E lui, intestardito: ma allora, dai, chi è che ti obbliga a portare il velo? E lei, sistemandoselo all’indietro per dar aria alla ciocca che le scende irriverente sulla fronte, a quel punto lo congeda: nessuno, lo porto perché mi va di farlo. Poi si gira e se ne va, lasciandolo lì come un povero coglione che non sa più cos’è la libertà, come si declina, se lui stesso se la sia mai goduta, se sia mai esistita per qualcuno. D’altronde, su che parametri si misura il livello di libertà? Quali contesti sono così neutri da poterci far dire di esserci passati attraverso senza aver subito alcun condizionamento?

Intendiamoci, qualcosa d’oggettivo dovremo pur supporre che esista: come operatore che ha trascorso almeno un quarto di secolo a lavorare al servizio dei più giovani, ritengo una delle più grandi conquiste in materia di diritti umani nel nostro paese, il fatto che un minore sia sotto tutela legislativa dello stato e che dunque possa godere della sua protezione, e non della famiglia come invece accade in molti paesi del mondo ancora, dove grazie al perdono del padre di una figlia abusata, uno stupratore se la cava con pochi giorni di prigione e un gruzzoletto da destinare a risarcimento del disonore arrecato alla famiglia della poveretta. Condivido dunque pienamente le scelte che sono seguite al fattaccio, tutti bravi: la ragazzina che denuncia, la preside che segnala, i servizi sociali che accorrono. Lasciatemi però scrivere che io quella mamma non riesco proprio a condannarla e che almeno un piccolo pensiero mi sento di rivolgerglielo, se non altro per il doloroso smarrimento che certo sta vivendo ora, con quella figlia allontanata che probabilmente a modo suo ama veramente (pur di un amore incomprensibile, giustamente, anche per la stessa figlia) e che non sa darsi pace, non per il gesto in sé, la cui gravità evidentemente non riesce e non può capire, ma per questa ennesima lacerazione che attraversa la sua esistenza e che non sa spiegarsi in nessun modo.

Non assolvo il suo gesto sia chiaro, ammesso e non concesso che si abbia noi il potere di condannare o assolvere qualcosa o qualcuno, ma non assolvo neppure la solita schiera di questuanti di disperazioni altrui che schiamazza i suoi pro e contro nella palude schifosa dei social, postando sentenze preconfezionate intorno alla sofferenza di una figlia, al dolore di una madre.

E semmai avessi una carezza da donare, dopo essermi accertato che per la ragazza sia messo in piedi il miglior progetto d’accoglienza e di crescita possibile e che la preside benemerita abbia ricevuto il giusto encomio, è a quella madre che la riserverei. Perché la vita è questione di progetti, di encomi e di carezze. Soprattutto di quelle mai ricevute.

Paolo Coceancig

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