Vorrei usare qualche rigo in più del consueto per commentare – come tanti – la decisione della Cassazione che affolla le prime pagine dei giornali odierni laddove afferma che i migranti hanno l’obbligo di conformarsi ai valori della società nella quale hanno deciso di stabilirsi.

Mi pare che la Corte incardini un principio giusto – alla cui stregua, il pluralismo sociale garantito dall’art. 2 Cost. trova un “limite invalicabile” nel rispetto dei diritti umani e dei fondamenti giuridici della società ospitante – in una discutibilissima cornice, peraltro superflua ai fini della decisione, costituita dal preteso “obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale in cui ha liberamente scelto d’inserirsi”.

Il riferimento ai valori, gratuitamente enfatizzato, non rappresenta un dettaglio trascurabile. Si tratta, a mio modo di vedere, della deliberata rinuncia – ora scolpita in sentenza e perfettamente coerente con l’abusato paradigma della c.d. “integrazione” – all’idea di poter costruire una società multiculturale, preferendo limitarsi a prendere atto di una società multietnica, con precise gerarchie identitarie, culturali e di valore.

Tutti coloro che sui social media, al bancone del bar, a tavola con gli amici e, oggi, persino nelle aule degli ermellini, ripetono come un mantra che “chi viene qui deve adeguarsi ai nostri valori”, declinano, con gradi variabili di consapevolezza, l’idea che in Europa esiste un’identità statica riconoscibile, un’origine culturale che non può esser messa in discussione da ogni diversità che ci accosta.

“Questo concetto monolitico d’identità – scrive Michela Murgia – è pregiudiziale e in quanto tale è molto difficile da scalfire anche con l’evidenza. A smentirlo basterebbe, in fondo, considerare il fatto che quello che definiamo “il nostro patrimonio culturale” è il figlio bastardo di molti letti, risultato di un processo di incroci culturali, geografici, economici, etnici, volontari o forzati a cui nei secoli siamo stati esposti; ma non è per nulla detto che chi è stato generato in quel letto voglia conoscere la sua genealogia in modo così dettagliato. Essere nati dalla parte fortunata della storia e della geografia per molti rappresenta già un ottimo motivo per non studiarle” (Futuro interiore, 2016, p. 16).

Signori della Corte, lasciatevelo dire: il futuro ci viene addosso, e ci travolgerà, senza un ripensamento delle appartenenze che prescinda dall’idea di un’identità nazionale fondata su una pretesa omogeneità di cultura e valori. Gli ingredienti, gli idiomi, i costumi delle società multiculturali sono tanti e sono destinati a moltiplicarsi: “non è credibile – scrive ancora la Murgia – che sia solo uno di essi a poter rappresentare il fondamento di un’identità comune, a meno di voler fondare uno Stato sulle basi anacronistiche del nazionalismo etnico, cosa inverosimile anche per ovvie ragioni demografiche”. Pretendere di rimettere in gerarchia le culture di appartenenza di coloro che bussano alle porte del vecchio continente significa porre le basi di conflitti permanenti e laceranti, di cui già si vede – come noto – più d’un segnale.

Non si tratta di relativismo culturale, bensì di sfida multiculturale. Cosa diversa dall’inventario esotico delle “culture minori” che può affacciarsi dalle bancarelle di un capodanno multietnico ospitato in una delle tante capitali europee dell’integrazione. Lo ha spiegato bene il primo ministro Justin Trudeau nel discorso sul sistema scolastico canadese, tenuto a Davos il 21 gennaio 2016 durante il World Economic Forume: “Invece che guardare al multiculturalismo come a un gruppo omogeneo a cultura dominante che in un dato giorno in una palestra scolastica visita diversi stand e vede per esempio i samosa da una parte e una danza berbera dall’altra, noi abbiamo intere scuole dove si celebra il Dewali, la festa delle luci, o dove si leggono gli oroscopi cinesi di ciascuno, o dove si ragiona tutti insieme di come sostenere i propri compagni che si preparano al Ramadam. È l’insieme delle esperienze culturali che diventa dominante in Canada e questo avviene proprio nella scuola pubblica, grazie al nostro modello educativo. Questa è l’unica risposta possibile alle persone che dicono: “attenzione, questo popolo non si sta integrando abbastanza in fretta nel nostro sistema di valori!” Dobbiamo assicurarci che la nostra educazione fornisca alle persone gli strumenti per capire che non sono costretti a scegliere tra l’identità dei loro genitori e il loro essere pienamente cittadini canadesi”.

L’esperienza canadese – scrive ancora Michela Murgia, tutt’altro che indifferente ai diversi gradi di autonomia che hanno, ad esempio, le donne, nelle diverse culture e religioni – parte dal presupposto che l’apertura genera altra apertura, mentre l’esistenza di una gerarchia culturale consolida le posizioni in contrasto e le trasforma in irreversibili marcatori identitari, secondo i quali la definizione sociale procederà per negazione: “Noi siamo quello che Loro non sono” (p. 29).
Sembra, purtroppo, esattamente questo il presupposto da cui muovono i giudici della Cassazione quando scrivono che “la decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha la consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quelli di provenienza, ne impone il rispetto”.

Bisognerebbe, insomma, che anche loro – come suggerirei di fare a tutte e tutti noi – trovassero il tempo di leggere, tra un precedente e l’altro, “Futuro interiore” di Michela Murgia, per meditare sulla differenza sostanziale che corre tra il concetto d’identità, tanto duro a morire, e quello di appartenenza, che parla al futuro. Perché “se si può essere identici solo a chi ci è già simile, è altrettanto vero che si può scegliere di appartenere – “essere parte di” – anche a chi simile non ci è”.

Sulla base della volontà di appartenenza ad una comunità, espressa da coloro che richiedono cittadinanza, dovremo forse costruire, un giorno, un ancora inesistente ius voluntatis, assai più adeguato ai tornanti della storia che abbiamo difronte, rispetto all’odierno ius sanguinis, feudale e retrivo, ma pure allo ius loci che ancora fatichiamo a guadagnare.
Sapendo che il percorso che compiono i migranti per farsi riconoscere partecipi di una data comunità costituita è costellato di fatiche che, per essere felicemente superate, andrebbero equamente suddivise con coloro che già ne sono parte.
Non dal giorno alla notte. Ma almeno con la determinazione a cominciare.

Federico Martelloni

 

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