In questi giorni nelle pagine dei quotidiani bolognesi si è svolto una specie di dibattito molto impegnativo tra un genitore di una bimba che frequenta le scuole Federzoni e il sindaco Merola. Il tono è pacato e disteso, la preoccupazione è comprensibile, le buone intenzioni indiscutibili ma le conclusioni palesano non essere il frutto di una analisi pensata e approfondita.
Si descrive una realtà scolastica difficile dove “Una cosa è credere nell’inclusione e in un mondo aperto e solidale e un’altra è trovarsi abbandonati in un ghetto. Un luogo dove i soldi non arrivano mai e dove i pochi operatori che resistono alla fuga ondeggiano di giorno in giorno tra l’essere vittime e l’essere eroi”, e quindi si rivolge al sindaco per avere quell’attenzione e quell’aiuto che nel caso specifico delle scuole, martoriate da decenni di politiche di tagli, dovrebbe essere ovvio; e la forma è la preghiera.
Da qui una prima osservazione del nuovo rapporto instauratosi tra cittadini e politica, verso l’alto, e colto con sollecitudine ad apertura d’anno scolastico, approfondendo a latere con percentuali sugli alunni cosiddetti stranieri; sugli stranieri che in realtà non lo sono di fatto; sulle problematiche socioeconomiche, giustissime; sulle “deroghe” al numero di questi studenti cosiddetti stranieri, già pluridecennale e arcinoto fenomeno, che ogni anno affiora però come diversamente governato e poco si spiega il ripetuto “il problema non sono gli alunni stranieri”, con interviste a un paio di dirigenti scolastici impegnati nelle “scuole di frontiera” (che dovrebbero invece essere chiamate più semplicemente “scuole di periferia”) prima linea per responsabilità in una scuola che si vuole definire autonoma, ma che poi resta sempre più in balia dei mancati compimenti per l’annoso problema delle risorse.
La risposta del sindaco, immediata, precisa e certo con la consulenza dei quartieri, ma, e qui la seconda osservazione, risposta in termini di un “abbiamo fatto tanto”, “tranquilli noi ci siamo”, un poco già sentito, e di un meglio faremo, perché il baricentro dell’azione politica comunale sarà presto spostato sui quartieri, e qui la forma è un amicale, forse troppo amicale, “non siete soli”, “verrò a trovarvi”, “illumineremo le periferie”.
In un futuro tutto da immaginare, e da costruire, alla preghiera si è risposto con l’assoluzione. Innanzitutto di se stessi. E con la promessa di non più peccare. Tralasciando però di assumersi responsabilità per politiche scolastiche sciagurate, nei confronti delle quali non si è presa nessuna posizione. Anzi, piuttosto, la si è abbracciata e riconosciuta come cosa buona e necessaria.
Peccato d’ignavia rimesso: dal centro alla periferia, dunque, per non più commetterlo.
Ma cerchiamo prima di comprendere di cosa si stia parlando, e perché. Vero, il problema non sono gli allievi stranieri, così come non erano i “terroni” dell’immigrazione interna degli anni ’70. Vero, le scuole come le Federzoni sono un ghetto da cui si fugge. Ma il problema è allora la fuga. Per dove? Spesso si va verso la scuola privata, e qua giova ricordare il disatteso referendum comunale e una qualche milionata di euro… Vero, il confine non è culturale o di “civiltà”, che poi diventa sinonimo di razza, seppur alla buona: i bimbi sono bimbi e punto. L’ostacolo è socioeconomico e, pur temendo di non esser più compresi dati i tempi, la differenza è una differenza di classe. Ci sarebbero gli stessi problemi se i bimbi che frequentano le scuole di periferia fossero dei ricchi stranieri possidenti e agiati? Mi viene facile pensare tempestivamente che se così fosse vedremmo allora anche dalla Bolognina passare i pullman che ogni mattina portano i piccoli alunni nella scuola su in collina. Domanda: sindaco, perché quei pullman dalla Bolognina non passano?
Se la differenza è di classe, se si accetta questa anacronistica terminologia, il problema è allora, e lo è tutto, nell’essersi divaricata in questi anni la forbice reddituale e nell’aver assunto il tanto criticato stato sociale (ma tanto indispensabile pappatoia da una parte, quanto ineludibile volano di crescita economica e di redistribuzione connessa a quella crescita dall’altro) come nuova capacità selettiva, nuova capacità di escludere i sommersi e di salvare i già salvi. In modo semplicistico: posso mettere uno sportello di assistenza sociale in una scuola, ma lo sportello non ha risorse e, peggio, non riesce a fare rete dentro una programmazione che rimane molta su carta; oppure, per il certificato medico che è necessario per accedere alla certificazione di Disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa), ci sono famiglie che non possono pagarsela, quella visita da settanta euro, lasciati distrattamente sotto l’orizzonte di uno sguardo dello stato sociale che, insieme con una progressiva miopia, non può o non vuole o non riesce a guardare se non da una certa altezza in su. Il motivetto del “non ci sono risorse”, con il contrappunto del “le poche risorse agli italiani”, non è cosa recente, e sempre ci si dimentica che le risorse hanno anche un aspetto di distribuzione equa che, di per sé, non è per forza comunismo conclamato.
E non è che le cose migliorino girandosi dall’altra parte, o guardando in alto: Miur e Roma non ci sono; l’uno ora tutto impegnato nella parodia di un potenziamento/miglioramento delle scuole dove gli istituti hanno richiesto insegnanti di matematica e si son visti arrivare docenti di diritto eccetera eccetera, e il peggio deve venire con una pessima gerarchizzazione ministeriale che farà la crisi del sistema, la fine della scuola della Costituzione, da istituzione a servizio a pagamento, di qualità A, B e Z, mettendo certo fine alla nota incapacità della nostra scuola di contrastare i destini familiari (figli dei notai che diventano notai) per dirla in modo sarcastico, perché questa distinzione partirà dall’asilo; l’altro, il Governo della Repubblica, pertinacemente impegnato a cambiar tutto giacobinamente, ma con i disegni di legge di destra lasciati nei cassetti negli ultimi vent’anni (buona scuola, art. 18, Costituzione), lì trovati un paio di anni fa, quando si scoprì, si fa per dire, che la sinistra non aveva mai svolto una progettazione preparatoria: troppo impegnata a seguire Silvio nelle sue operazioni populiste, prima alzando le braccia al cielo, e poi, imitandolo.
In tutto ciò un Sindaco che peso ha? Avrebbe per esempio il dovere di ascoltare quegli insegnanti che hanno tanto da dire, forse troppo, e che per esempio potrebbero raccontargli di come l’anno scorso, inizio della buona scuola, si è stabilito che in tutte le scuole non venissero chiamati i supplenti per assenze fino a nove giorni per i docenti, a due settimane per i collaboratori e a un mese per le segreterie. Un sindaco riuscirebbe a lavorare con i suoi assessori, i suoi segretari, il personale di cui di solito ha bisogno è malato? E perché mai dovrebbe riuscirci una scuola? E come potrebbe fare una scuola di periferia? E quest’anno le cose ancora peggiorate: concorsi in alto mare, assegnazioni e utilizzazioni non ancora attribuite, e siamo a ottobre!! errori di assegnazione di cattedra e algoritmo muto, sordo e cieco alle richieste di spiegazione (scusatemi, ma è fin troppo facile chiedersi come mai l’algoritmo abbia sistemato la moglie del premier sotto casa e tutti gli altri ….vabbè, richiedo scusa per la banalità). E poi, scuole anche difficili in reggenza!!! Reggenza significa che un dirigente scolastico di un IC deve occuparsi una volta alla settimana di un altro Ic con problemi e temi del tutto differenti dal suo. Un po’ come se un sindaco…o diciamo un presidente di quartiere dovesse gestire per un periodo molto lungo anche un altro comune o un altro quartiere. Super eroi del presente.
Ma torniamo ad un problema esclusivamente di competenza del Comune: gli educatori. Stabilire che siano figure indispensabili al buon andamento della scuola, al sostegno educativo e didattico per gli alunni svantaggiati. Potenziandone magari le attribuzioni e perché no, riguardando i contratti di lavoro (ricordate diritti/doveri/orari di servizio/ salario adeguato eccetera…).
Bastano le invettive sui tagli agli enti locali e le sue proteste per svolte “a sinistra”? Non può bastare che la politica comunale, al tempo del colera finanziario e della crisi di quel lavoro che ha fatto la ricchezza e la sperimentazione sociale emilianoromagnola, sia quella nazionale, segua la corrente: si agisce sull’emergenza; si aspetta l’emergenza; e quando le emergenze montano, non ci si capacita dell’inefficacia delle cose fatte, di cui si fa l’elenco ma non un vero consuntivo, e un poco si fa quel che si può, onestamente. Risposte benignamente assolutorie, promesse sincere. Uomini di natura essenzialmente buona, sgomitate politico-partitiche-carrieristiche a parte, che poi però sono inevitabili, che però sono tutt’uno con la diaspora anti-pro-renziana che è stata l’alternativa alla latitante progettazione.
Ma le cose che hanno fatte sono buone. Certo non tutte; non sempre. Ma quelle buone, e penso alla Fabbrica Federzoni perché non bastano? Perché?
In vista delle terre di un mondo nuovo, nessuno sa che avverrà e nessuno ha le risposte pronte, se non i cultori del facile allarmismo, dell’ovvio e dell’insulto. E tuttavia, tra i piccoli episodi di una scuola, ce ne sono di piccolissimi che hanno un poco di simbolico: dei tagli son rimaste vittime i servizi di giardinaggio; giusto perché, al momento di scegliere, ci son state cose più essenziali; poi però vennero un paio di giorni di vento forte, cosa peraltro rarissima, e i rami degli alberi si spostarono molto più del solito; alcune tegole vennero così trascinate di sotto, cadendo sulla scala di uscita per il cortile dei bimbi della materna. E poteva esserci un brutto articolo di giornale. È andata bene. E, anche qui, non è questione di colpa e di assoluzione. Tolte le risorse, si era tagliato quello che era parso meno essenziale, a tavolino giustamente, linearmente, sul caso concreto e specifico no, anche perché non capita spesso né che il vento cresca tanto, né che un albero sia così alto e vicino all’edificio.
Il punto, la morale, è forse che si debba fare una “manutenzione” diversa, meno correttamente lineare, più specifica. Non capponi nel sacco manzoniano che ce ne sono fin troppi a concepir la cosa come una guerra tra poveri assai divertente a vedersi, ma una flessibile sperimentazione di politiche dal basso, dentro la quale curare una parte dedicata al flusso di informazioni, richieste, risposte, esempi di buone pratiche tra singole scuole e Comune. Le questioni sono quindi due, e sono entrambe molto, molto sinistrorse: il sindaco Merola ha fiducia nelle politiche compartecipative con cui caratterizzò l’inizio del suo primo mandato, fiducia fino a farne un modello reale, un nuovo modello, o adesso, dopo le batoste Trilogia e passante, le pensa lui stesso come propaganduccia fittizia? Merola ha o non ha uomini e programma per passare alle periferie?
Vedremo allora la risposta effettiva al “non siete soli”, perché qui non si tratta di trovar padri o fratelli maggiori sulle cui spalle trovar conforto. Qui si tratta di aprire una nuova stagione. Se le forze in campo bastano. Se le teste e i cuori bastano.
Adele Porcaro
ins. Scuola primaria Federzoni