L’intervento della Consigliera di Coalizione Civica Emily Marion Clancy in apertura del Consiglio comunale di lunedì 8 giugno 2020
SAY THEIR NAME, DITE IL LORO NOME è stato il nome che abbiamo scelto per la piazza di Sabato 6 Giugno a Bologna, e per una volta tanti nomi sono stati scanditi: nomi di persone da commemorare, certo, ma anche nomi di combattenti viventi che subiscono il razzismo sulla loro pelle ogni singolo giorno.
E così le nostre Piazza Maggiore – e verso la fine anche Piazza Nettuno – si sono unite alle centinaia di piazze che in tutto il mondo hanno manifestato per l’uccisione di George Floyd, Breonna Taylor, Ahmaud Arbery, Tony McDade, tra gli altri, senza però dimenticare le vittime del razzismo endemico nella nostra società. Un razzismo che ha i volti di Soumalia Sacko, di Emmanuel Namdi, di Idy Diene, di Modou Diop, di Assane Diallo, di Diouf Cheick, di Vakhtang Enukidze, ma anche i troppi volti senza nome nel nostro Mediterraneo, i troppi corpi sfruttati nei nostri campi di pomodori. I troppi volti resi invisibili da una legge, la Bossi Fini, che ha criminalizzato generazioni di migranti, dai Decreti Sicurezza che l’attuale maggioranza di governo non ha ancora cancellato.
Storie che ci hanno saputo raccontare tante volte le piazze del Coordinamento Migranti di Bologna, che si sono ripetute e si sono intrecciate con le storie di ragazze e ragazzi cresciuti sui banchi delle nostre scuole, che hanno citato la Costituzione, spiegato la storia del colonialismo anche italiano, che non conoscono casa al di fuori dell’Italia ma non hanno un pezzo di carta che dica che sono nostri concittadini.
È difficile contenere le emozioni nel raccontare cosa abbiano significato quelle due ore per così tanti di noi.
C’erano le testimonianze, come quella di Malam, che sente il razzismo come un’oppressione che non gli permette di respirare, di essere libero.
C’era la rabbia potente di chi gridava “basta” alla razializzazione del suo corpo. Rebecah ha fatto tremare la piazza. È esausta: perché quando sbaglia non è lei che sbaglia, ma tutte le persone che hanno lo stesso colore della sua pelle. Perché i suoi professori le chiedevano se era proprio sicura di iscriversi allo scientifico e di potercela fare, perché quando cammina per strada le persone le chiedono quanto prende: a una ragazza del ‘99, ora studentessa di Medicina, nostra corregionale. Sì, ce la faceva a fare lo scientifico.
C’era la nobile indignazione di Youlsa che ci ha portato con lui nel suo viaggio che è partito dal Mali e che da anni lo trova in Italia, a lavorare spesso senza diritti, pagando le tasse, ma continuando a subire il razzismo ogni singolo giorno per il colore della sua pelle. E l’ha fatto inframmezzando il suo discorso con citazioni della nostra Costituzione, a braccio.
C’era la speranza vibrante di una generazione che ha interiorizzato l’intersezionalità delle lotte, ricordando la necessità di una società femminista, di un suolo libero dallo sfruttamento capitalista, del ruolo di Marsha P. Johnson e dell’attivismo nero e trans nel primo Pride. Grazie Anthony per averla rappresentata così degnamente.
C’era la forza di Claudio, che ha portato la ferita di ragazzi italiani afrodiscendenti che quando sentono i loro coetanei dimenticare o minimizzare il razzismo nel nostro paese e hanno il coraggio di rispondergli per le rime, di educarli sulle ingiustizie presenti nel nostro sistema, si sentono rispondere “Ma no Claudio, tu sei diverso, tu sei uno di noi”.
C’erano le fisicità, quelle di chi era presente in piazza, quelle dei messaggi impressi sui cartelli, quella di Ofelia, che ha raccontato le morti in mare danzando sulle note della performance Io Sono Migrante, perché in quanto afrodiscendente sente di dover lottare ed esprimere la battaglia per una società più giusta anche con il suo corpo.
Sono voci che ci hanno parlato di una volontà ereditata, tracciando la linea delle battaglie e delle conquiste che sono già state fatte in nome dell’antirazzismo quasi sessant’anni fa e la rabbia per quanto siamo ancora indietro in Italia. La nostra Italia, che ancora non ha fatto i conti con un passato fascista, colonialista, con razzismo ed eteropatriarcato strutturali. E solo la consapevolezza e l’ammettere questa parte del nostro passato può farci progredire.
Se la marcia su Washington per il lavoro e la libertà di Martin Luther King è stata nel 1963, com’è possibile essere tornati indietro nel 2020, ci chiedono.
Che piaccia o no alle destre, la piazza di ieri ci racconta di un’Italia nera che esiste da tempo e che ora si organizza e chiede di poter contare.
Qualcuno ci ha chiesto di parlare per loro. No, è fin troppo tardi anche per questo.
Siete voi i volti del futuro, voi che ci avete incantati con la vostra forza, fatto piangere e sorridere e sperare.
A noi il ruolo di essere umili alleati della Rivoluzione che state contribuendo a mettere in atto.
Ci sono momenti in cui la coscienza sociale e collettiva si evolve. Sabato, per la nostra Bologna, è stato uno di quei momenti. E siamo certi che sarà solo il primo di una lunga serie.
No Justice, no Peace. Black Lives Matter. Say Their Name.