Welfare, sicurezza ed emergenza abitativa
- Welfare universale, diffuso e garantito
Negli ultimi anni si è consolidata nell’opinione pubblica l’idea che le politiche di welfare siano parassitarie, un buco nero che sottrae continuamente risorse allo sviluppo dei territori. Nell’ultimo decennio, anche a Bologna, si è imposta quella logica individualista e atomizzante che ha portato a una profonda rottura del rapporto fiduciario tra istituzioni e le cittadine e i cittadini, convertendo intere famiglie al welfare fai da te, che crea soltanto disuguaglianze, paura e preoccupazione per il futuro. Nel momento in cui il risparmio privato è ai minimi storici, la privatizzazione del rischio non fa che accentuare il senso di solitudine e di angoscia delle persone.
Occorre ridisegnare il welfare dunque, nelle sue forme pratiche di gestione delle risorse economiche e umane e nella percezione delle cittadine e dei cittadini che accedono a servizi sempre più frammentati, schermati il più delle volte da una burocrazia insostenibile. Il welfare riguarda la qualità della nostra vita. Tutti, all’occorrenza, abbiamo bisogno di ritirare la nostra piccola o grande quota di spesa sociale, tutti siamo o lo diventeremo, utenti dei servizi pubblici. Il nostro benessere non può prescindere da quello del nostro vicino di casa.
Vogliamo quindi favorire la crescita di un nuovo welfare che, rilanciando la centralità del pubblico a tutela di un’equa ripartizione di costi e prestazioni, favorisca e accompagni tutte le forme di cittadinanza attiva prodotte dal basso, riconoscendone il valore sociale, culturale ed economico.
- Amministrazione Comunale e nuova Asp Unica Città di Bologna
I Servizi Sociali Territoriali devono rimanere in capo all’Amministrazione Comunale e non possono essere esternalizzati all’ASP. Il passaggio di molti servizi sociali e socio-sanitari dalla gestione Comunale a quella dell’Azienda Servizi alla Persona, Asp Unica Città di Bologna (il contenitore che eroga i servizi per noi non è neutro), comporterebbe infatti una serie di criticità, quali:
– minore garanzia della qualità dei servizi erogati alle cittadine e ai cittadini da parte di una nuova Azienda nata per far risparmiare;
– frammentazione dei servizi che verranno erogati con un ulteriore passaggio Comune-Asp-Cooperative Sociali o altri Soggetti che gestiranno materialmente i servizi attraverso gare d’appalto (gare al massimo ribasso, che premiano di più il minor costo dei servizi rispetto alla loro qualità);
– possibile spreco di risorse nel mettere in piedi una nuova macchina amministrativa, altri dirigenti, altri strumenti burocratici;
– mancate garanzie per i lavoratori che spesso in questi passaggi rischiano di perdere in termini economici, di diritti e di motivazione al lavoro di cura.
I Servizi che ci proponiamo invece di realizzare prevedono:
– l’integrazione reale tra i servizi sociali e sanitari per permettere la cura della persona nella sua globalità;
– la condivisione degli obiettivi tra gli ambiti tecnico, amministrativo e politico;
– il superamento della logica degli appalti al massimo ribasso e lo “spezzettamento” degli orari di lavoro degli operatori delle Cooperative Sociali;
– la garanzia della continuità e professionalità attraverso la co-progettazione dei servizi con il privato sociale per una programmazione almeno triennale dei servizi.
Si intende inoltre, proprio per assicurare una qualità costante ai servizi erogati, definire anche mediante protocolli che indichino prassi operative durature una collaborazione regolare con l’Università di Bologna per procedere alla valutazione imparziale e scientifica dei servizi pubblici in termini di risultati e di processi, di qualità e di equità. Una collaborazione che si dovrà poi ampliare alla formazione permanente di chi lavora in servizi rivolti alle persone.
- Lotta alle diseguaglianze nella salute
Il nostro attuale modello di sviluppo genera società che hanno al loro interno una grande diseguaglianza. I fattori sociali che si sono dimostrati più importanti nel mettere a rischio la salute, quando sono carenti, sono innanzitutto il livello di istruzione e il reddito. Per questo motivo l’Organizzazione Mondiale della Sanità indica come obiettivo per tutti i governi, nazionali e locali, di perseguire una maggiore equità nella salute attraverso l’azione sulle sue determinanti sociali: miglioramento della scolarità, azioni per un ambiente più salubre, per una protezione sociale lungo tutto l’arco della vita, per la sicurezza del posto di lavoro, per salari adeguati e misure come il reddito di cittadinanza. L’impegno per la scuola pubblica, il contrasto attivo all’abbandono scolastico o il reddito minimo sono quindi misure che hanno un impatto preventivo e positivo, costituendo fattori di protezione anche dal punto di vista della salute.
Il nostro territorio non è infatti esente da diseguaglianze nello stato di salute che possono essere ricondotte all’azione di fattori economici, sociali, ambientali, lavorativi, comunque legati alle diverse opportunità di vita e di lavoro. Il Rapporto Osserva Salute 2015 registra, per la prima volta dal 2005, valori in diminuzione della speranza di vita alla nascita anche in Emilia Romagna. Anche i profili di salute stilati negli ultimi anni per la popolazione dell’area metropolitana di Bologna mettono in evidenza sensibili differenze tra i diversi distretti del territorio per alcuni “indicatori di civiltà”, come il numero dei bimbi nati di basso peso, dei bimbi nati pre-termine, la stessa speranza di vita alla nascita.
Oltre ad agire sulle determinanti sociali occorre prendere immediati provvedimenti per rimuovere gli ostacoli che le donne più fragili e svantaggiate, e i loro bambini, incontrano a Bologna e nella Città Metropolitana per accedere ai servizi pubblici sanitari e sociali per la maternità: occorre disegnare percorsi di assistenza alla gravidanza specificamente orientati alle donne povere e migranti che non frequentano i servizi, garantendo il parto gratuito e assistito anche per le donne migranti “irregolari”, contraccezione gratuita dopo l’interruzione volontaria di gravidanza e per le adolescenti non maggiorenni, attraverso i consultori famigliari.
- Il Servizio Sanitario Pubblico come bene comune
Anche se i servizi sanitari, di per sé, non sono i fattori determinanti più importanti per la salute di una comunità, tuttavia l’accesso a servizi di buona qualità si è dimostrato un importante fattore di protezione delle persone e delle comunità, capace di contrastare le diseguaglianze legate al benessere economico della famiglia d’origine. Avere a disposizione questi servizi, accessibili e fruibili al momento del bisogno o, come nel caso ad esempio di misure di prevenzione come le vaccinazioni in età infantile, al momento “giusto” della propria vita, aiuta a crescere bene come cittadini consapevoli, consente di superare gli handicap di partenza e di condurre una vita in equilibrio con il proprio ambiente.
Da tempo a livello nazionale, ma ora anche nel nostro territorio, stiamo assistendo a un fenomeno di “sostituzione”: limitazione delle risorse destinate ai servizi pubblici e sostegno, con risorse pubbliche, di strutture alternative private, che il cittadino utilizza pagandole di persona, ma che vengono favorite o direttamente finanziate dal pubblico (consentendo ad esempio a specialisti dipendenti pubblici di svolgere la propria libera professione nel privato).
Il caso del pronto soccorso “a pagamento” inaugurato da un imprenditore della sanità privata bolognese con il taglio del nastro da parte degli amministratori pubblici è emblematico: un caso nel quale i servizi sanitari, invece che giocare il ruolo di contrasto alle diseguaglianze sociali ed economiche, le cristallizzano, favorendo una cura tempestiva, ad accesso diretto, a chi può permettersi di pagare “solo 100 euro”.
Dati recenti dell’OCSE dicono che il 7,1% degli italiani (oltre 4,2 milioni di persone) rinuncia a farsi curare perché il costo della prestazione è troppo alto, la lista d’attesa troppo lunga oppure l’ospedale troppo distante. Con il diminuire del reddito il disagio cresce: la rinuncia alla cura sale al 14,6% nel caso in cui gli interpellati appartengano al 20% più povero della popolazione.
Noi affermiamo l’assoluta priorità del finanziamento e dell’innovazione del Servizio Sanitario Nazionale, pubblico e universalistico, motore di mobilità sociale e di protezione del benessere delle persone e delle nostre comunità.
Vogliamo “Case della salute” di quartiere, per avere cure primarie di buona qualità e un’assistenza integrata tra sanità e servizi sociali, più vicina ai cittadini, più personalizzata sulle caratteristiche delle persone, delle loro famiglie e comunità.
Vogliamo promuovere un Laboratorio di Innovazione, in collaborazione con Aziende Sanitarie e Università di Bologna, per la messa in opera di Corsi di Laurea Magistrale per Infermieri con competenze avanzate nel campo delle Cure Primarie, per sostenere la sperimentazione dell’Infermiere di Famiglia nelle Case della Salute. Una figura di Infermiere”curante” che esiste e ha successo in molti paesi con un buon sistema sanitario pubblico come il Canada e la Catalogna, una figura adatta ad affrontare la sfida dei malati cronici che devono essere seguiti per molti anni, non necessariamente sempre dal medico.
Vogliamo investire sulla formazione di nuovi professionisti della salute anche sostenendo l’Università di Bologna nella sperimentazione di curricula di formazione in parte integrati tra le diverse lauree sanitarie, a cominciare dalla Laurea in Medicina e Chirurgia e da quella in Scienze infermieristiche, e tra Lauree Sanitarie, Laurea delle Scienze Sociali e Laurea per Educatori. Vogliamo operatori capaci di lavorare insieme, competenti su saperi integrati, al confine tra le diverse discipline e professioni, capaci di destreggiarsi nella complessità.
In opposizione all’entrata di un mercato privato nei servizi di emergenza-urgenza pubblici proponiamo ambulatori a libero accesso per i “Codici Bianchi”, gestiti da Medici di Famiglia e di Guardia Medica, con il supporto di personale infermieristico e medico-specialistico, pubblici, gratuiti, integrati nelle Case della Salute.
Rispetto al tema sicurezza intendiamo affrontare i numerosi problemi con lo stesso atteggiamento di innovazione e pianificazione che contraddistingue la nostra proposta politica. Basta con l’emergenza anche per quanto riguarda la sicurezza! Non serve gridare al pericolo o al degrado, ma proporre azioni concrete e positive. Si tratta soprattutto di tenere conto del fatto che dietro ai problemi relativi alla sicurezza nella nostra città e nei nostri quartieri si nascondono questioni precise: non solo disagio sociale ma spazi abbandonati e male curati, totale incuria e dimenticanza verso alcune parti della città.
Occorre in primo luogo valorizzare le esperienze di sicurezza sociale autorganizzate già presenti in città e investire nella partecipazione delle cittadine e dei cittadini alla cura dei quartieri in termini di spazi e di relazioni tra chi li abita. Prevenzione dovrà essere la parola d’ordine di ogni azione di governo della città, l’emergenza al contrario non può che portare all’uso della coercizione e della repressione. L’ascolto delle cittadine e dei cittadini sarà un pilastro delle nuove strategie di sicurezza, anche tramite l’istituzione di tavoli coordinati dai quartieri con rappresentanti della cittadinanza, operatori dei servizi, privato sociale, imprese, Forze dell’Ordine e Polizia Municipale, per leggere insieme i bisogni e mettere insieme le risorse.
Cosa vuole dire questo in concreto? Non si tratta solo di “sorvegliare” ma di intervenire prima, in modo attivo e propositivo, per prevenire e prevedere i problemi. In altre esperienze, ben più a rischio delle nostre, sono state organizzate forme di partecipazione e di coinvolgimento con figure come i mediatori di zona (contribuendo a formare queste persone) che assieme a una riprogettazione della funzione dei “vigili di prossimità” o di quartiere – una istituzione spesso rimasta sulla carta o sviluppata in modo troppo arretrato e passivo – sappiano raccogliere, certo, notizie e informazioni su situazione di allarme, ma lavorino in strada per intervenire subito sulle situazioni. La questione deve essere posta in questi termini: non solo “più controllo” ma “quale problema sta emergendo”? Cosa possiamo fare qui e ora per intervenire? Aiuto, gestione della sicurezza, confronto con le cittadine e i cittadini. Intervento di vicinanza, di mediazione, di gestione delle emergenze e di pianificazione per impedire che gli spazi urbani si trasformino in luoghi insicuri.
Occorre garantire una rete capillare e funzionale di servizi di prevenzione in ogni quartiere attraverso operatori competenti (interventi educativi di strada, centri culturali, spazi per i giovani e interventi di supporto al successo scolastico e all’inserimento lavorativo per chi ne ha bisogno), riqualificando e rendendo più piacevoli gli spazi pubblici, senza allestire piazze-salotto ma pensando alla semplicità, alla funzionalità e alla vivibilità. Le esperienze più significative in questo ambito ci dicono che allestire piccole piazze, anche con progetti poco costosi, rapidi e leggeri nella loro attuazione, che non richiedano lunghe fasi di progettazione (arredi provvisori), co-gestiti assieme ai negozianti e ai lavoratori della zona, contribuiscono a rendere gli angoli delle città, anche in periferia, piacevoli, vivibili, sicuri, proprio perché “presi in carico” dalla cittadinanza. Sedie, sdraie, piante, aiuole, pedane colorate dove fermarsi, scambiare due chiacchiere e incontrarsi. Si tratta di trasformare parti di città che rischiano di ingrigirsi e morire, per cambiarne gli utilizzi, i ritmi, la percezione (meno degrado, più tranquillità e piacere). L’esperienza insegna che più gli spazi sono piacevoli e vivibili, più ci sono persone in giro, anche la sera, e più ci sono persone in giro, più si esercita una funzione di controllo collettivo e partecipato.
- Basta con l’emergenza abitativa!
Il tema dei beni condivisi è centrale per una riorganizzazione della città che sia in sintonia con la complessità del nostro tempo. La riqualificazione degli spazi abbandonati e la loro trasformazione in contesti comunitari permanenti sarà tra le nostre priorità. La città ne è piena e le istituzioni finora sembrano essersene accorte solamente quando le cittadine e i cittadini ne prendono autonomamente possesso, le risanano e creano all’interno pratiche di cittadinanza attiva. Queste esperienze hanno generato in alcuni casi delle vere e proprie sperimentazione di welfare dal basso, spesso con il convinto consenso della cittadinanza che ne avverte il potenziale di sicurezza sociale che quelle esperienze portano con sé.
Occorre quindi allargare l’inquadratura oltre le soluzioni tampone e le politiche di emergenza, basate su sgomberi e sfratti (negli ultimi due anni almeno dieci grandi stabili e una decina di appartamenti di edilizia pubblica sono stati occupati a scopo abitativo), senza per questo dimenticare il disagio estremo dei senza dimora “tradizionali”, quelli che abitano rifugi di fortuna, binari morti alla stazione, portici del centro storico, dormitori pubblici. Infine, ci sono gli sfratti per morosità incolpevole che nel 2015, così come nell’anno precedente, sono stati circa 1400. Il problema abitativo ha quindi una dimensione che va oltre l’emergenza, dato anche il numero crescente di persone coinvolte.
Sul tema della casa, dei diritti dei minori e della dignità delle persone più vulnerabili, noi diciamo “basta con l’emergenza”. Bisogna andare rapidamente al definitivo superamento della logica che ha distinto l’attuale giunta per cui l’amministrazione si attiva, trova soldi e soluzioni, solo di fronte a uno sgombero. Questi interventi, oltre ad avere costi decisamente elevati, non fanno altro che riprodurre sofferenza. Occorre un radicale processo di modifica dell’organizzazione dei servizi che restituisca centralità al lavoro di progettazione, prevenzione, promozione del benessere di utenti e operatori. Servizi che superino non solo la logica dell’emergenza, ma anche quella assistenziale, modellandosi su bisogni e risorse della persone e del territorio. Servizi che vadano oltre la logica delle categorie e dei finanziamenti a settore (disabili, immigrati, minori, povertà), per un approccio globale alla persona. Servizi, infine, che siano capaci di provocare cambiamenti culturali negli atteggiamenti delle persone, delle famiglie e delle associazioni che da passivi soggetti richiedenti soluzioni da parte di altri diventino co-progettatori e co-produttori del benessere proprio e della collettività sociale.
- Autonomia e responsabilità
Per risolvere il problema dell’emergenza abitativa occorre pensare a modelli che producano autonomia. Le strutture di accoglienza “di massa”, come i dormitori, generano cronicità del disagio e non abbattono i costi. Occorre invece pensare a soluzioni di housing diffuso, appartamenti per piccoli gruppi o famiglie dove si sviluppi “empowerment” e senso di comunità. Un progetto in grado di intercettare questo bisogno di alloggio comprenderà:
– una maggiore articolazione dei percorsi di accesso al bene casa;
– un incremento del comparto dell’affitto di qualità e a costi inferiori rispetto a quelli proposti oggi dal mercato.
Tali esigenze non possono essere affrontate solamente con interventi immobiliari in libero mercato o con le sole politiche di edilizia popolare. Tra queste due polarità si apre un vuoto che va affrontato con categorie e strategie nuove. Le politiche della casa devono lasciare il posto a una nuova politica dell’abitare che contempli una sinergia tra pubblico e privato (sociale) per la progettazione, la gestione e la sostenibilità di nuovi interventi abitativi sociali.
- Ridurre il costo degli affitti
Occorre incidere sul mercato degli affitti attraverso accordi con i proprietari, tramite il potenziamento dell’agenzia per l’affitto, che deve svolgere realmente il ruolo di mediatore tra soggetti deboli e proprietari. L’agenzia deve essere anche dotata di fondi economici garantire i proprietari da eventuali morosità incolpevoli.
In quanto offerta accessibile e temporanea, l’affitto è una soluzione che tende a intercettare prioritariamente la popolazione giovane e dinamica, voce emergente quanto vulnerabile e trascurata della “nuova domanda abitativa”. Single e giovani coppie, famiglie di nuova formazione, studenti e giovani lavoratori si trovano infatti a fare i conti con una fase di avvio spesso delicata, segnata da incertezze e instabilità ma anche da prospettive che necessitano di supporto e accompagnamento. Affitti a canoni accessibili potrebbero quindi offrire l’opportunità di un abitare “transizionale”, che non immobilizza le progettualità di futuro nell’acquisto di una casa ma supporta e libera risorse e desideri.
La scelta strategica della locazione deriva inoltre dal fatto che la modalità dell’affitto è in grado di rispondere a un numero di domande di casa assai superiore, essendo consentito il movimento delle persone che vi si rivolgono, nel tempo, verso nuove soluzioni, in funzione di mutate esigenze e secondo differenti percorsi di vita.
Infine, il carattere di temporaneità/transitorietà dell’offerta, assieme all’articolazione tipologica di quest’ultima (con abitazioni di taglio e di tipo diverso: minialloggi, alloggi collettivi e protetti), è in grado di qualificare l’housing sociale come servizio di interesse economico generale. Dal punto di vista sociale, il concetto di “casa come servizio” (più che come prodotto) implica il rispetto di due caratteri fondamentali:
– l’universalità dell’offerta (potenzialmente rivolta “a tutti”, alla collettività);
– la temporalità/transitorietà della stessa, ossia condizioni di accesso e permanenza definite in specifici regolamenti, ma anche l’accompagnamento nella ricerca di nuove sistemazioni.
Occorre stimolare modalità di abitare diverse, che siano da stimolo a un nuovo rapporto tra l’uso e la progettazione degli spazi comuni e gli spazi privati. Il Comune deve farsi promotore e garante di una serie di progetti di housing sociale. In questi progetti la qualità è associata, in primo luogo, alla capacità di prevedere una pluralità di spazi in grado di mediare il passaggio da una sfera maggiormente intima e privata a una più comunitaria e di condivisione. In particolare, riconoscendo la crescente complessità del vivere contemporaneo, occorre propone modelli abitativi “estroversi”, capaci di preservare la dimensione intima senza renderla esclusiva e, quindi, di affiancarvi (favorendoli) momenti di incontro e socializzazione, che si ripropongono quali dimensioni centrali dell’abitare. In tal senso, lo stile progettuale deve mirare per un verso al contenimento dello spazio privato (con alloggi di taglio piccolo e medio-piccolo ma, al contempo, altamente flessibili e riconfigurabili nel tempo) e, per l’altro verso, a sviluppare spazi comuni interpretati come occasione di incontro e scambio.
Obiettivo irrinunciabile di un tale progetto in locazione è quello di promuovere, attraverso un servizio di alta qualità, una “nuova cultura dell’affitto”, in cui tali luoghi possano essere curati e “prodotti” dalla stessa comunità insediata.
Si tratta quindi di promuovere la realizzazione di ambienti accoglienti e ben forniti di supporto alla vita quotidiana (come depositi, lavanderia comune, piccoli laboratori) o anche orientati a ospitare attività per l’incontro e il tempo libero (spazi multifunzione e animativi, sale studio, etc.). Questi non devono necessariamente essere riservati in modo esclusivo agli inquilini, ma possono aprirsi anche all’esterno, partecipando alla costruzione di un contesto di qualità e innervando la realtà territoriale di vivacità sociale (garantendone così anche una maggiore sicurezza).
Il progetto sulla casa, inteso in questa forma, lavora al rafforzamento di un’interpretazione nella quale l’abitare non si riduce alla sola dimensione edilizia e costruttiva, ma ricerca relazioni con altre funzioni (commerciali, culturali, assistenziali, etc.), superando la mono-funzionalità dei comparti e rispondendo così ad altri bisogni presenti nel contesto locale.
La finalità è quella di realizzare edifici di elevata qualità dal punto di vista non solo compositivo-architettonico (aspetto che include spazi accessibili e riconfigurabili), ma anche funzionale e prestazionale, puntando sulla qualità dei componenti, sull’elevata dotazione tecnologica e sul ricorso a sistemi di produzione energetica integrati che sfruttano fonti rinnovabili. Queste scelte, se da un lato possono apparire maggiormente onerose in fase di realizzazione delle strutture, consentono tuttavia di contenere significativamente i costi nelle successive fasi legate al ciclo di vita degli edifici e rappresentano, inoltre, un importante fattore in grado di qualificare e valorizzare l’intervento per chi lo promuove, per chi lo assume, per chi lo abita.