Pubblichiamo un contributo di Romolo Calcagno, nostro iscritto e membro del comitato Priorità alla Scuola, il quale suggerisce alcune imprescindibili linee d’intervento per una città che metta al centro della sua agenda politica la Scuola per come dovrebbe essere: pubblica, egualitaria ed efficiente.
Ci vorrebbe francamente troppo per analizzare la lucida schizofrenia legislativa che ha travolto la scuola da Luigi Berlinguer in poi. Lucida, se ci limitiamo dunque solo agli effetti, per la continua mortificazione della pubblica istruzione, per l’effettiva frammentazione prodotta tra i lavoratori della scuola, per una didattica resa subalterna alla cabala annuale del reclutamento e per l’incomprensibile incuria dei luoghi della formazione. E ancora, per l’attualissima distorta visione della scuola non più come presidio sociale di formazione al pensiero critico, ma come luogo esclusivo di stazionamento di giovani da crescere nell’ideologia attivante della produttività.
Va detto che tra le misure legislative spicca l’opera, mai effettivamente contestata dai governi successivi, della Gelmini (L.133/2008) che dal 2008 al 2011 ha decurtato 8 Mld€ alla scuola pubblica (mentre se ne regalavano alle scuole private quasi la metà con la L.62/2000) e che ha – con il DPR 81/2009 – mortificato in un sol colpo: l’organizzazione didattica – aumentando il numero di alunni per classe in ogni ordine di scuola – e minato il valore dell’inclusione, perché con 25 alunni di media per classe i primi ad essere penalizzati sono state le nostre meravigliose diversità, i nostri giovani con maggiore bisogno di attenzione (gli alunni stranieri, i diversamente abili, i bisogni educativi speciali e le eccellenze).
Stupisce, in questa cornice, la totale acriticità dei Dirigenti della pubblica istruzione ad ogni livello. L’USR Emilia Romagna fino agli anni ‘80 era considerato il centro delle sperimentazioni didattiche e delle buone prassi, capace di influenzare e guidare i modelli nazionali di pubblica istruzione. Nei decenni successivi, complici anche le strumentali misure prescrittive presenti in ogni atto legislativo, ha prevalso una funzione prevalentemente compilatoria. Novelli manager, figli della torsione neoliberale di aziendalizzazione dei servizi pubblici, meri esecutori di norme e sempre più distanti fisicamente dai corridoi e dalle campanelle. La pandemia non ha fatto altro che far emergere, in tutta la sua brutale accelerazione delle emergenze, tutte le problematiche irrisolte. Ne è un esempio l’applicazione, primo USR d’Italia proprio quello dell’ER di Stefano Versari, della fallimentare logica del metro statico a rime buccali in classi non idonee per struttura e numero di alunni. Dirigenti sempre più legati a dati quantitativi di performance che non hanno fatto altro che dimostrare quanto sia deleteria l’idea stessa di legislazione concorrente, di competitività tra regioni e di autonomia differenziata ereditate della riforma del Titolo V. Imbrigliati da miriadi di circolari, DM, linee guida e da un’idea astratta di modernizzazione a tutti i costi; non ci si è resi conto di quanto la pubblica istruzione avesse bisogno di azioni peculiari capaci di guardare da vicino le facce e le aspettative degli studenti italiani, senza dover per forza emulare i modelli performanti di matrice anglosassone.
Alcuni dati ci aiutano a ragionare meglio e a calarci nelle classi della nostra regione. In Emilia Romagna, su 547.187 studenti:
- 7 alunni su 100 hanno Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA),
- 101.067 sono alunni stranieri su un numero di 808.953 (nazionale)
- 19.235 alunni sono DVA (diversamente abili)
(Fonte: Ministero dell’Istruzione – Ufficio Gestione Patrimonio Informativo e Statistica”- Focus “Principali dati della scuola – Avvio Anno Scolastico 2020/2021)
A fronte di questi dati si capisce di quanto ci sia bisogno di un’offerta formativa che ci riporti alla centralità della didattica e dell’inclusione nelle scuole e in presenza. Sgombrando il campo dalla retorica di riforme calate dall’alto e fondate esclusivamente su eccessi di digitalizzazione e di azioni basate su competenze orientate troppo al sistema produttivo.
Ridurre gli alunni in ogni classe.
La prima proposta riguarda la lotta, senza se e senza ma, sulla riduzione degli alunni per classe. Occorre una supervisione da parte degli attori politici degli stanziamenti previsti per la pubblica istruzione a livello europeo (PNRR), nazionale, regionale e locale per una effettiva ricaduta sull’edilizia scolastica e sugli ambienti di apprendimento. Per la formazione di classi in deroga per difetto alle prescrizioni del Dpr 81/2009. Ricordando che la costituzione, a partire dal prossimo anno, di classi prime nelle scuole di ogni ordine e grado con un numero di alunni – tra 15 e 18 – ( anche ripristinando la decentralizzazione degli Istituti scolatici) significa garantire: più sicurezza tra alunni e lavoratori della scuola, poter proporre una didattica mirata più efficiente, sostenere una scuola realmente inclusiva e attenta ai reali bisogni educativi delle giovani generazioni e promuovere, finalmente, una maggiore stabilità lavorativa e di programmazione per migliaia di lavoratori precari che continuano a garantire l’apertura delle scuole a diritti ridotti.
Gli educatori. Una risorsa da stabilizzare.
La seconda proposta riguarda gli educatori professionali. Una realtà (L.104/92 e L.328/00) che valorizza Bologna e l’ER, ma che ancora risente di una stridente contraddizione tra la ineccepibile qualità del servizio e i diritti di questi lavoratori. Come ha felicemente argomentato Raffaele Iosa in un articolo apparso su “Scuola Oggi”: “gli educatori sono pagati dai Comuni ma sono dipendenti quasi tutti da cooperative che vincono appalti pubblici. Provocando un fenomeno strano: il costo/ora per il Comune è superiore di 3 volte mediamente di quanto arrivi all’educatore, che riceve mediamente un salario molto basso, raramente superiore agli 800/900 euro/mese. Ma c’è di più: i contratti sono sostanzialmente a cottimo, per ore lavorate. Ma c’è ancora di più: se la scuola è chiusa per neve insegnanti e collaboratori sono pagati, gli educatori no. Condizioni cioè che rendono precarie le condizioni occupazionali degli educatori e la loro vita. Dunque questo fenomeno del cosiddetto outsorcing andrebbe rivisto in Italia, non solo per gli educatori ma certo per questi assolutamente sì. L’esternalizzazione dei servizi pubblici è comprensibile in numerosi casi, quando l’erogazione di un servizio sia provvisoria e temporanea, o quando affidata al welfare sociale funzioni meglio, ma non ci pare questo il caso. L’educatore segue bambini e ragazzi con disabilità in forma continua e permanente, i costi dei Comuni non ripagano il lavoratore ma una organizzazione che potrebbe essere meglio assorbita da un unico sistema pubblico perfino risparmiando e offrendo ai lavoratori condizioni stabili a tempo indeterminato. Ma c’è una pecca in più. Questo povero educatore è servo di tre padroni: il comune che può cambiare cooperativa da un appalto all’altro, la cooperativa che sarebbe il vero datore di lavoro, ma soprattutto la scuola che è l’effettivo soggetto che gestisce il suo lavoro. Con effetti negativi, com’erano quelli dei bidelli comunali negli anni ‘80 che non a caso furono statalizzati per avere un’organizzazione più compatta nei punti gestionali. Per esempio: non sempre l’educatore va alle riunioni del GLO o a formazione comune coi docenti semplicemente perché la cooperativa non prevede il pagamento del tempo lavorato, se non quello strettamente di vicinanza al bambino. Ecco perché l’internalizzazione degli educatori sarebbe necessaria, per farla davvero diventare persona della scuola, non solo nella scuola. Insomma, professionista dipendente della scuola”.
Tutto questo, per una scuola pubblica efficiente e capace di garantire a tutti il diritto costituzionale all’istruzione.
Romolo Calcagno
Docente IC2BO Zanotti