Pronto soccorso Ospedale Maggiore di Bologna, ore 21.00: accompagno mio marito trasportato d’urgenza con l’ambulanza. E’ stato travolto da un’auto mentre guidava il motorino.
Alle 5 del mattino la prognosi: frattura dell’anca. Immobilità assoluta per un minimo 15 giorni. Non si deve alzare, non si deve mettere a sedere, deve restare steso a letto. Poi gradualmente potrà fare qualche passo al giorno con le stampelle e forse tra un mese riprende a camminare.
Il medico del pronto soccorso mi consegna il foglio e mi saluta distrattamente, l’infermiera spinge fuori dalla stanza il letto. La porta si richiude alle nostre spalle.
Sono distrutta ma più spossato ancora è mio marito che da 8 ore ulula dal dolore senza che nessuno si sia degnato di fargli una flebo di qualunque cosa nonostante le ripetute richieste.
Ma almeno ora sappiamo cos’ha.
Effettivamente ci metto un po’ di tempo , ma dopo circa 25 secondi realizzo cos’è appena successo: siamo stati buttati fuori dall’ospedale.
Nella mia mente prendono forma diverse soluzioni. La prima a cui penso è quella di spingere il lettino su cui è steso mio marito fino a casa, in San Donato. A Bologna non ci sono salite e anche se è un po’ lontano, magari ce la faccio. Ma sarebbe un po’ come rubare il carrello della Coop e rinuncio al misfatto.
La seconda ipotesi è di urlare fino a quando non mi sveglio.
La terza è aprire quella cazzo di porta, rientrare nella stanza dalla quale sono appena uscita e riavvolgere il nastro. Ed è quello che faccio.
Il dottore e l’infermiera sono basiti, mi guardano come una scolaretta che ha appena pisciato sulla cattedra, pronti a redarguirmi. Ma sono in lacrime e gli faccio presente che non so assolutamente cosa fare per portare a casa e assistere adeguatamente mio marito.
Piango, si, e alzo un po’ la voce mentre affermo che mi sembra assurdo che possano sbattere fuori un paziente in quelle condizioni. Di malavoglia l’infermiera mi dice che devo chiamare un’ambulanza per il trasporto e che me la devo pagare e siccome resto inebetita a guardarla alza lei la cornetta. Forse ha capito che sono pietrificata e che se non fa qualcosa non si libererà tanto facilmente di me. Ma il numero è occupato.
E’ la mia fortuna, perché in quei pochi secondi di attesa mi si asciugano le lacrime ed esce fuori la belva.
Anzi no, non la belva, ma una creatura ancor più pericolosa: una cittadina alla ricerca dei propri diritti.
E cercando, anzi, immaginando di avere dei diritti, passo le successive due ore a strepitare perché mio marito sia trattenuto in ospedale.
Il primo passo del medico del pronto soccorso è quello di cedermi ad un’altra dottoressa, forse più determinata. Mi lamento della sanità pubblica, lei mi dice che la sto aggredendo e che le hanno mandato un paziente che non dovrebbe essere li. Ma tengo duro e dopo qualche minuto è lei che mi dice che non ce la fanno più, che stanno tagliando tutto e che hanno precise indicazioni di mandare a casa tutti quelli che possono. Che il suo dirigente ha la terza media e guadagna quattro volte quello che guadagna lei che invece si fa un culo così ed è pure laureata (meno male, almeno è qualificata!). Che insomma è tutto uno schifo ma non è colpa dei medici e che se io non sono in condizioni di assisterlo a casa allora si, può rimanere in ospedale.
Ah, allora ce l’avevo il diritto….
Veniamo messi in medicina d’urgenza dove il dottore di turno mi ribadisce che non dovremmo stare li, perché il paziente non ha bisogno di nulla, solo di riposo. Mi dice che occupiamo un letto senza validi motivi e che la mattina dopo dobbiamo sloggiare. Intanto però gli fa delle flebo di codeina per i dolori atroci che ha dappertutto e dell’eparina per evitare emboli. Tutte cose che fino al lunedì successivo sicuramente non avrei potuto somministrargli a casa.
La mattina dopo quel dottore non c’è e compare al suo posto una fata turchina in camice bianco. Mi dice di non preoccuparmi, che io ho diritto di star li e che finché l’Ospedale non ha la certezza che il paziente può essere curato adeguatamente a casa ha l’obbligo di tenerlo in cura. Mi dice che una soluzione temporanea si trova, magari una degenza in una casa di cura convenzionata con il Servizio sanitario. Parli con il capo reparto domani, aggiunge, vedrà che andrà tutto a posto. E comunque non può andar via devo fare degli accertamenti (si è accorta che non gli hanno fatto le analisi del sangue per verificare che il cuore sia a posto dopo il trauma e anche la tac alla testa, di prassi quando si cade sbattendo col casco per terra).
Ho appena scoperto di avere un altro diritto.
La degenza di qualche giorno in casa di cura mi darà il tempo di organizzarmi con il lavoro e con mia figlia e di trovare qualcuno che venga ad assisterlo mentre non ci sono, affittare un letto ortopedico, comprare altre cose necessarie… insomma lo saluto e vado via serena.
La mattina dopo quando torno, mio marito mi dice che ci sono delle novità, ma non ha ben capito, del resto è sedato per i dolori. Vado a parlare con la nuova dott.ssa che mi accoglie sorridendo e mi spiega che per i pazienti come lui la cosa migliore è stare a casa. Del resto anche lei con suo marito ha fatto così e poi, in fondo, deve solo stare immobile nel letto, non ha bisogno di nulla. Gli lasci un bicchier d’acqua sul comodino e il cellulare quando va al lavoro, vuole mettere l’ospedale con calore del focolare domestico? Insomma, ci manca poco che mi dica che a casa le ossa calcificano prima.
Basita le dico che ha tutta la mia stima per come ha gestito la cosa con suo marito, ma io non sono ancora pronta e che preferirei per qualche giorno che fosse trasferito in una casa di cura….
A questa mia richiesta la gentile professionista prodiga di consigli si trasforma in un mostro…mi accusa di aridità affettiva e mi dice che la lunga degenza me la scordo e che mio marito deve uscire subito di li. Le chiedo se almeno mi può prescrivere qualche presidio medico, chessò due pannoloni? La risposta non me la scorderò mai, finché campo: “Lei non ha diritto a niente”.
Ma orami sono abituata e da cittadina alla ricerca dei suoi diritti non mi fermo di certo di fronte ad una quisquiglia del genere. Bene, le dico, ma io l’ho appena informata che non sono in grado di assisterlo e quindi adesso lei si assume la responsabilità di mandare via un paziente che a casa non può essere curato adeguatamente, me lo scriva nel foglio di dimissioni, oppure da qui non me ne vado.
Se ne va lei, urlando e sbattendo la porta della stanza. Dopo 10 minuti mi informano che sta arrivando un’ambulanza per portare mio marito a Villa Chiara, per una lunga degenza. L’ambulanza non la devo pagare, mi informano, perché è un trasferimento.
Tutto è bene quel che finisce bene.
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Ma è davvero così?
Perché non posso fare a meno di riflettere su quanto mi è costato, in termini di fatica fisica e di stress e di umiliazione, arrivare ad avere qualcosa alla quale mio marito aveva diritto. E mi chiedo: cosa avrebbe mai potuto fare nelle mie stesse condizioni una persona sola, anziana, sofferente? O una donna immigrata col marito infortunato? O, semplicemente e senza arroganza da parte mia, qualcuno di un po’ meno istruito? Meno alla ricerca dei propri diritti?
Una persona più fragile quel diritto l’avrebbe reclamato? Ne avrebbe ottenuto il rispetto?
E ho anche pensato con una tristezza infinita che per la prima volta un Medico ha provato a convincermi a fare qualcosa non nell’interesse del paziente, ma del conto economico dell’ospedale.
Ha provato a “fregarmi”. Per la prima volta ho avuto la netta sensazione che fossimo dai due lati opposti della barricata.
E infine ho pensato a come deve essere umiliante svolgere la professione in queste condizioni, con un dirigente amministrativo che ai dottori della sua struttura dà l’indicazione di mandare a casa più gente possibile.
Del resto per una rompicoglioni come me, altri 10, 100 o 1000 non esercitano i loro diritti: un bel risparmio per il Servizio Sanitario Nazionale!
Ma è questo il compito della sanità pubblica? Scoraggiare i pazienti dall’esercizio dei loro diritti?
Certo, il problema principale sono i tagli e quindi la riduzione delle prestazioni, gli aumenti del ticket anche per i più poveri, le liste d’attesa infinite che rendono le prescrizioni dei medici di base del tutto inutili, così che diventa necessario andare dal privato.
Tagli che non sono mai stati così feroci come durante questo Governo.
Ma non c’è solo questo.
La riforma del Servizio Sanitario Nazionale ha prodotto una mutazione radicale. Perché quando uno Stato, o meglio un Governo, adotta come strategia quella di disincentivare i propri cittadini dall’esercizio dei loro diritti, forse sta già immaginando di levarglieli, quei diritti. Perché è molto più facile privare qualcuno di ciò che non è nemmeno più consapevole di avere.
Così vale anche quando viene disincentivata la partecipazione ai referendum, perché ad un Partito conviene che la gente non vada a votare, spingendosi fino a non accorpare le date con altre elezioni, anche se ciò costa una enorme quantità di soldi pubblici in più.
Così vale per la scuola, che dovrebbe essere gratuita e invece i genitori si trovano a dover pagare da anni un contributo volontario che tanto volontario non è più, finché non toglieranno la parola volontario e in un attimo si saranno dimenticati che avevano quel diritto.
Così vale per la legge elettorale, perché ci siamo dimenticati che avevamo il diritto di scegliere i nostri rappresentanti in Parlamento.
E forse, in un futuro non lontano, così varrà per il diritto di manifestare liberamente il nostro pensiero, com’è già accaduto in Spagna, paese in cui è di fatto stato introdotto il divieto di manifestare in piazza.
Suggerimenti: se andate al pronto soccorso portatevi gli antidolorifici da casa, quelli che si coltivano sul terrazzo.
s.