Seduta solenne del Consiglio Comunale in occasione della giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Intervento del consigliere Martelloni per il gruppo Consiliare Coalizione Civica
Se una lezione può esser tratta dalle relazioni che abbiamo ascoltato, è questa: dovremmo spogliare ogni nostro discorso sulle migrazioni dalla retorica ipocrita delle soluzioni “facili”.
Dovremmo farlo per il senso di umanità che forse ancora ci accomuna e dovremmo farlo perché le soluzioni “facili” potranno portare nell’immediato qualche consenso o far guadagnare qualche posizione nelle classifiche di gradimento dei cittadini, ma hanno conseguenze devastanti oggi sulla vita di migliaia di esseri umani in transito e avranno conseguenze devastanti sulle nostre società, sul nostro futuro, alimentando rabbia, chiusura, diffidenza reciproca.
Diciamolo chiaramente, come premessa ad ogni nostra considerazione: quando le frontiere diventano muri, ci impediscono di guardare lontano. Alimentano la nostra in-sicurezza, non alleviano le nostre paure, ma rafforzano solo gli imprenditori politici delle paure.
Dovremmo praticare solo e solamente discorsi di verità. E la verità, se stiamo ai flussi, è che, come ha ben scritto Alessandro Dal Lago qualche giorno fa:
“Con metà di un continente, l’Asia, in preda a guerre di ogni tipo, e con un altro, l’Africa, stremato da fame, povertà, conflitti armati, dittature e guerre per bande… pensare di fermare migranti e profughi è peggio di un’illusione: è un puro e semplice incentivo alle stragi nei deserti e in mare.
Quali che siano le spinte a lasciare i propri paesi – la fuga dalle bombe, la mera sopravvivenza, una vita decente, il miraggio del benessere, il ricongiungimento famigliare e così via – queste sono oggi più potenti della paura di morire prima di arrivare a destinazione. I migranti conoscono i rischi del viaggio, in un mondo in cui l’informazione è ubiqua. Ed è del tutto ovvio che, data la vastità della domanda, c’è chi organizza l’offerta: i passeur, gli scafisti, i signori della guerra e i governi che lucrano sulla disperazione.
Ma ridurre il problema agli intermediari è una prova di ottusità. Migranti e profughi continueranno ad arrivare finché le cause delle partenze resteranno. Pensare di diminuire i numeri degli arrivi con elargizioni, vere e proprie elemosine, alla Tunisia, ai signori della guerra libici e a uno stato come il Niger, crocevia delle migrazioni africane verso il Mediterraneo, è ridicolo.”
Queste politiche hanno già fallito e il loro fallimento è sotto gli occhi di tutti: possiamo continuare a chiuderli questi nostri occhi; possiamo tentare di volgere altrove lo sguardo, ma la tragica realtà di questo fallimento è nei profughi sotto la neve alla periferia di Belgrado, è nei racconti dell’orrore dei migranti trattenuti nei lager libici, torturati, violentati, uccisi dai loro aguzzini ai quali la chiusura delle frontiere, gli accordi bilaterali e la mancanza di politiche serie di accoglienza fornisce lavoro e denari. È soprattutto, negli oltre 5000 morti in fondo al mediterraneo nel solo 2016: da culla della civiltà questo nostro mare è divenuto il più grande cimitero a cielo aperto d’Europa.
Di fronte a tutto ciò la politica dei rimpatri attraverso i cosiddetti “nuovi CIE” strapperebbe un sorriso se non sapessimo già (ci siamo passati! Come si può avere memoria così corta?!) che i CIE, grandi o piccoli, non sono solo una ferita nel nostro sistema giudiziario, luoghi ciechi e impenetrabili dove si sono consumati troppi abusi, ma sono anche totalmente inutili (più o meno come svuotare il mare con un cucchiaino) tranne che a risalire nelle classifiche di cui dicevo in apertura.
La retorica dell’emergenza, poi, ci intrappola tutti: noi, i profughi e i migranti. Da questa retorica non riusciamo a liberarci: è da quando ho memoria di fenomeni migratori che l’Italia è in emergenza, è invasa, è al collasso… Più d’uno si è convinto che l’emergenza paga, in termini politici ed economici, che l’emergenza sia business e consenso, salvo qualche “effetto collaterale”: il sacrificio della dignità di molti esseri umani e uno sguardo corto sul nostro futuro.
E invece – come chiesto da più parti – va ripensata l’accoglienza, anzi: va inaugurata, per la prima volta, una vera politica dell’accoglienza. Invece di preoccuparci solo di quanti sono gli stranieri che arrivano nei nostri territori, dovremmo fare in modo che le persone ottengano un diritto di soggiorno quanto più stabile possibile, perché questo è prerequisito indispensabile di ogni possibile inclusione. Viceversa, un esercito di invisibili senza diritti, assorbito dai bisogni primari, è a disposizione di qualsiasi ricatto: una condizione di fragilità che evidentemente ricade su tutti noi, basti pensare allo sfruttamento nel lavoro, all’evasione fiscale, all’aumento della marginalità, insomma fenomeni che ogni cittadino, e ogni Primo Cittadino, dovrebbe aspirare a contenere.
“Investire nell’integrazione dei rifugiati e degli immigrati non è soltanto la cosa giusta da fare, ma è anche la cosa intelligente da fare”: lo scrivono all’Assemblea delle Nazioni Unite i sindaci di New York, Parigi e Londra, che lanciano un “appello all’inclusività, parte della nostra identità di abitanti di città ricche di diversità e prosperità”.
Come dice Renzo Piano nell’elogio della città pronunciato a Postdamer Plaz il 2 ottobre 1998, “ la città è multietnica per definizione. Ed è meticcia perché è il crogiolo di tanti modi di essere che si incontrano, si scontrano, si fecondano, si arricchiscono”.
Pura retorica? Dipende. Il primo gesto di Barcelona en comun è stato dare disponibilità ad accogliere 2.800 persone, con un progetto di accoglienza degna sul quale la giunta ha investito 10,5 mln di euro, e la città intera ha scritto e-mail alla giunta per mettersi a disposizione come volontari.
Ci vogliono piani d’accoglienza di lungo periodo (è un fenomeno che durerà a lungo) e, come a Riace, può trasformare in meglio i territori.
Dev’essere un piano d’accoglienza diffusa e decentrata, con indicatori di qualità e trasparenza. Esempi? Un’agenzia sociale di mediazione per la casa, poiché l’accesso al mercato immobiliare per i migranti, specie rifugiati, è, sovente, nei fatti precluso.
Altra strada, che non sia lastricata di morti e sconfitte, non c’è.
Questa è la verità dalla quale dovremmo tutti umilmente ripartire. Le ricette securitarie e contenitive, quelle sì, sono pura, dannosa e dispendiosa retorica. Rafforzare il potere di dittatori, signori della guerra, milizie ribelli, affidando loro il controllo dei movimenti migratori, significa concorrere al traffico degli esseri umani e alle migrazioni, e non farli cessare.
La dignità di tutti deve essere la nostra unica bussola. Con una precizazione preziosa che traggo da un bellissimo articolo di Gustavo Zagrebelsky dal titolo “ L’insostenibile ambiguità delle parole che usa la politica”:
“Quel che è senza precedenti – scriveva Hannah Arendt in relazione alla tragedia del suo popolo negli anni 30’-40’ del novecento – non è perdere la propria patria, ma l’impossibilità di trovarne una nuova”. Questa situazione estrema è la sorte delle persone private dei diritti umani. I diritti umani sono una realtà per chi sta sopra, e il contrario per chi sta sotto. Lo stesso, per la dignità. Per chi sta sopra, le rivendicazioni di chi sta sotto e chiede di emergere all’onor del mondo sono attentati allo standard di vita “dignitoso” di chi sta sopra. Quando si chiede lo sgombero dei migranti che intasano le stazioni, dormono nei parchi pubblici e puzzano, non si dice forse che danno uno spettacolo non dignitoso? Ma, dignità secondo chi? Non secondo i migranti, che della dignità non sanno che farsene, ma secondo noi che da lontano li guardiamo. Ci sono parole, dunque, che non valgono nello stesso modo per i divites (i ricchi) e gli inanes (i diseredati). Si dovrebbe procedere da questa constatazione per un onesto discorso realistico e riconoscere che le parole che hanno valore politico non sono neutre. Servono, non significano; sono strumenti e il loro significato cambia a seconda del punto di vista di chi le usa; a seconda, cioè, che siano pronunciate da chi sta (o si mette) in basso o da chi sta (o si mette) in alto nella piramide sociale. Occorre, perciò, diffidare delle parole e dei concetti politici astratti. Assunti come assoluti e universali. Se si trascura il punto di vista da cui si guardano i problemi e si parla genericamente di libertà, diritti, dignità, uguaglianza, giustizia, ecc. si producono parole vuote che producono false coscienze, e che finiscono per abbellire le pretese dei più forti e vanificano il significato che avrebbero sulla bocca dei più deboli”.
Se assumessimo, per una volta, il punto di vista delle donne e degli uomini migranti, potremmo forse migliorare la qualità e il senso delle parole e delle politiche che dedichiamo a questo fenomeno.
Federico Martelloni