La precarietà che operatrici e operatori del sociale si trovano a subire oggi nel nostro Paese è un tema ineludibile e dalle conseguenze inaccettabili.
“Sono lavoratrici e lavoratori a cui non è permesso di aprire mutui, investire sul futuro, fare figli, quasi sempre costretti a lasciare il lavoro a cui si sono formati per poi diventare camerieri, manovalanti o emigrare” come ha ricordato lunedì in Consiglio la nostra consigliera Porpora Marcasciano, per farlo è partita da un’esperienza particolare: la sua.
Di seguito il testo integrale dell’intervento.
“Per questo mio intervento, farò ricorso a una delle pratiche fondamentali del femminismo: partire da se. Parto dalla mia età pensionabile che sarebbe dovuta partire tra qualche settimana. Nonostante la mia antica diffidenza sulle garanzie statali, ho dato ascolto a conoscenti che mi hanno spinta comunque ad informarmi. Il responso dell’appuntamento del 5 Agosto al Patronato è stato di gran lunga più deludente delle mie già scarse aspettative.
Dagli accertamenti fatti risultano 28 anni di lavoro con contratti a Progetto (come si definivano all’inizio), poi COCOCO, CoCoPro, Prestazioni occasionali, ecc. In questi 28 anni, solamente in 2 non avendo superato la soglia dei 5000 sono stata esentasse, per il resto, pagato regolarmente IRPEF, IMU e le varie ma evidentemente questo non fa testo quindi, oltre alle ritenute già scalate sulle buste paga e le tasse previste potrò andare in pensione a 71 anni, con niente poco di meno che 400 euro mensili.
La mia condizione è la stessa di migliaia di operatrici e operatori che lavorano nel sociale o nel terzo settore: assistenza, supporto alle fragilità, case alloggio, minori, antitratta, tossicodipendenze, riduzione del danno, senza fissa dimora, migranti. In Italia intanto si è costruita una narrazione secondo la quale cultura e welfare non fanno mangiare. Su questo però una differenza andrebbe fatta tra il welfare laico o pubblico e quello cattolico.
Una fetta consistente di lavoratrici e lavoratori con laurea, curriculum e formazioni particolari non garantita ma che hanno accumulato negli anni knowhow e specializzazione di tutto rispetto
Gli enti da cui dipendono difficilmente riescono a garantire contratti a tempo indeterminato poiché i progetti su cui si basano hanno scadenze limitate e molte persone pur di continuare interventi già iniziati su cui spesso ci si appassiona, fanno tanto e troppo volontariato. In questo modo sottolineo non si garantisce neanche un buon servizio…troppa incertezza e discontinuità. E’ oramai risaputo che gli enti erogatori di questi servizi vengono pagati con ritardi spaventosi per cui “precarietà di stipendi e precarietà di contributi pensionistici” sono la prassi per un settore che copre un enorme vuoto di welfare. Sono lavoratrici e lavoratori a cui non è permesso di aprire mutui, investire sul futuro, fare figli, quasi sempre costretti a lasciare il lavoro a cui si sono formati per poi diventare camerieri, manovalanti o emigrare.
Aggiungo una nota al mio curriculum. Nonostante i limiti contrattuali, mi è stato permesso di entrare nel mondo del lavoro solo qui a Bologna attraverso servizi e progetti della mia associazione e la lungimiranza di Comune e Regione. Prima di allora, in quanto Trans come nel resto d’Italia l’accesso al lavoro a persone come me era sbarrato. Nel 1990 coordinai e portai avanti in veste di sociologa e di persona trans, un importante lavoro di ricerca su prevenzione e informazione tra le persone trans. Ricerca che fu poi pubblicata su una rivista scientifica. Ebbene alla fine fui pagata dall’ente pubblico (di cui non faccio nome) sotto forma di donazione perché impossibile contrattualizzare una persona trans oltretutto con precedenti per atti osceni ricevuti all’uscita di una lezione universitaria, perché vestita in modo poco consono al mio genere, quindi travestito.
Ecco la storia d’Italia che non si conosce.”