A occhio e croce questa ‘riforma dei quartieri’ si direbbe – e l’ossimoro è d’obbligo – nient’altro che una inerte improvvisazione.Una limitata spending review camuffata da ‘riforma’. Più volgarmente una ‘boiata’ priva di pensiero: politico, progettuale,istituzionale e sin’anche geografico.
La grande stagione del decentramento prese forma nella fortunata commistione delle due culture politiche dominanti: quella comunista, in origine di tradizione centralista, e quella cattolica, nella sua variante comunitarista. L’incontro avvenne sul terreno di una condivisa ‘mobilitazione costituzionale’ e della politica di partito intesa come forma suprema della mediazione sociale. La partecipazione civica nei quartieri diveniva il luogo dove il ‘cittadino’ usciva dall’astrazione e si materializzava nell’autocoscienza organizzata e concreta dei bisogni sociali. Entrambe le culture erano inclusive e capillari, sicchè il quartiere divenne il naturale punto di incontro di parrocchie, sezioni di partito, organizzazioni sociali e associazioni volontarie. Il centro civico come una grande casa del popolo, vero e proprio municipio locale. Quei quartieri erano ben 18 ed erano ritagliati con il bisturi di una robusta cultura geo-sociologica. Il centro storico fu sezionato seguendo le linee del cardo e del decumano, mentre i quartieri extra moenia furono tagliati nel rispetto di sostanziosi criteri morfologici, identitari e funzionali (ancora adesso funzionano ottimamente come zone statistiche dell’Istat). La città come sorta di icosaedro del quale ogni quartiere era una faccia riconoscibile. I quartieri erano numerosi e relativamente piccoli. E giustamente. Fra spazio e partecipazione politica c’è infatti una correlazione stringente. Come dimostra una letteratura sterminata, una rigogliosa partecipazione di base abbisogna di spazi identitari riconoscibili e funzionalmente maneggiabili.
La riforma Vitali ridusse i quartieri a nove accorpandoli secondo criteri relativamente ragionevoli, cioè non totalmente snaturanti (la geometria a spicchi, per abbattere la barriera centro/periferia), ed assecondando la componente funzionale. Finì la stagione romantico-fondativa della partecipazione e se ne apri una di più forte istituzionalizzazione. Quartieri con deleghe più pesanti e comprensive, più burocratizzati e con una classe politrica decentrata più specializzata e semi-professionale.
Percorso anche allora discutibile, per quanto motivato da uno stallo se non da una crisi delle forme partitiche di rappresentanza periferiche, ma la riforma Merola non si capisce proprio cosa sia se non una contraddizone in termini. Le deleghe sono depotenziate e riassorbite in realtà entificate di livello sovra-locale (Asp e Istituzione scolastica). Il dominio territoriale e demografico viene allargato a dismisura e posto in relazione a perorazioni così insistite di partecipazionismo informale da fare pensare a una retorica farmaceutica (cittadini ‘pro-attivi’, bilanci partecipati, progettualità spontanee, ecc.). Una contraddizione in termini, dalla via che questi modelli operano secondo logiche bottom up e come tali richiedono realtà circoscritte e identificate. La stessa fenomenologia del comitatismo urbano opera su due livelli: quello ultra-locale, su macro-issues funzionali, o iper-locale, nei dintorni della residenza. Polarità espressive che solo un folle potrebbe ritrovare in questi sei quartieri giustapposti senza alcuna ratio. Diverso sarebbe stato il discorso se i nuovi macro-quartieri fossero stati concepiti come anticipazione di municipi metropolitani, cioè del comune scorporato. Allora avrebbe avuto senso pensare non a quartieri ‘leggeri’ ma a vere è proprie ‘città dell’interno’ fortemente strutturate e con vasto e complesso dominio funzionale e territoriale seppure sorrette da strutture figurali potenti e comprensive. Aspetti che nell’attuale configurazione si possono ritrovare solo nel caso del quartiere Reno e del Navile. Ma di tutto ciò non v’è nè menzione nei deliberati, nè alcuna percezione.
[i tapini non sanno che il Medec operò rilevazioni assai approfondite sulla fenomenologia dei quartieri. I beati agiscono sotto il velo dell’ignoranza, non leggono, non si documentano, non approfondiscono alcun tema….seguono solo i loro bignamini dogmatici]
Sicchè mentre una burocrazia comunale ignorante della dimensione metropolitana, assieme allo stesso Sindaco, si è appropriata delle spoglie della Provincia, così essa torna in possesso anche delle prerogative del decentramento istituzionale sulla scala infra-comunale. Un vero e proprio processo di ri-accentramento, perfettamente isomorfo a quanto sta avvenendo alla scala nazionale sotto la scure della governance neo-liberistica. Ma se la ratio è, alla fine, quella di una banale spending review per risparmiare, ancora una volta, sui ‘costi della politica’ e, più generalmente, sui costi di transazione democratici, allora i quartieri si potevano ritagliare in qualsivoglia maniera: ortogonale, circolare, elicoidale ecc. ecc. Anzi si potevano abolire del tutto e almeno si sarebbe rispettato il requisito della serietà formale. E comunque delle due l’una: grandi quartieri hanno senso se li si eleva a municipi metropolitani. Se invece si vuole potenziare la patecipazione dal basso ci vogliono quartieri piccoli, di scala quasi rionale. Questa riforma invece è talmente stupida da rasentare il dilemma di buridano nel mentre vorrebbe ambire a prendere due piccioni con una favicchia..
Non c’è pensiero istituzionale, non c’è neppure cultura, politica e geo-sociale. Siamo al delirio: non si sa chi stende una carta su un tavolo e ci disegna sopra e poco dopo i cittadini, che ancora devono metabolizzare le confinature di Vitali, si trovano immessi in non si sa che cosa. Ormai la politica istituzionale è alla mercè di tronfi ragionieri scarsamente qualificati che si professano ‘legislatori’. La classe politica di quartiere, come già a suo tempo quella provinciale, è così sprovveduta da non sapere fare altro che contribuire a segare il ramo sul quale è seduta, così tutto il tronco se lo pappano i padroni del vapore politico. Del resto una come la Naldi ha altre ambizioni, ad esempio, che levarsi a difesa del quartiere San Vitale obbrobriosamente sventrato e dato in pasto alla borghesia di Santo Stefano. Quelli di Sel son contenti perchè si trovano messo su carta il cosìdetto bilancio partecipato. La misura è davvero colma. Ma di cosa stiamo parlando ? Si poteva fare (e si può fare) diversamente. Chiamare, ad esempio, le forse politiche, le istituzioni, le rappresentanze sociali, le competenze disciplinari, i cittadini a collaborare a un progetto complessivo di riordino istituzionale radicalmente alternativo alla centralizzazione imperante.
di Fausto Anderlini