Oggi durante una conferenza stampa abbiamo presentato alcune proposte per tutelare (o ripristinare) quello che chiamiamo il diritto alla città.
Il tema del ‘diritto alla città’, inteso innanzitutto come possibilità di abitarla a prezzi equi e di trovarvi un lavoro degnamente retribuito, ma anche come vivibilità generale fatta dall’equilibrio tra residenti e turisti, tra locali di ristoro e commercio di vicinato, ci impegna fuori e dentro il Consiglio comunale.

IL LAVORO NELLA “CITTÀ DEL CIBO”, DEL TURISMO, DELLA GIG E SHARING ECOMOMY
Pensiamo sia alla portata di Bologna l’obiettivo, ambizioso ma realistico, di diventare una delle città meno diseguali d’Europa (e, per ciò stesso, del mondo). Ma ad alcune condizioni.

Preambolo: in questi anni l’economia di Bologna sta cambiando. Si fanno strada nuovi settori, come il turismo, la ristorazione o la cultura, che se da un lato portano occasioni di lavoro e ricchezza (materiale e immateriale), dall’altro concentrano tale ricchezza nelle mani di pochi, anche perché il lavoro è spesso povero, precario o, peggio, irregolare o gratuito.
La legislazione e la contrattazione collettiva nazionale non sono più sufficienti a garantire un’adeguata redistribuzione della ricchezza e un’adeguata tutela del lavoro: è tempo che anche le amministrazioni del territorio facciano la loro parte, reinventando alcuni dei propri tradizionali strumenti o dotandosi di nuovi strumenti.

1. Stop lavoro irregolare e promozione della qualità del lavoro.
La città del cibo talvolta può risultare indigesta. Se, da un lato, assistiamo a una crescita del turismo che fa arrivare ricchezza in città, dall’altro assistiamo a un costante impoverimento dei suoi lavoratori.
Come ci dice l’ISTAT, infatti, nonostante il supermercato delle tipologie contrattuali assicurato dalle riforme del mercato del lavoro che si sono nel tempo susseguite, il lavoro nero e irregolare continua a crescere, specie in settori come turismo e ristorazione, mente quello regolare è ad altissimo tasso d’intermittenza e precarietà.
Il Comune deve prendersi la propria parte di responsabilità, incentivando buone pratiche e squalificando invece quelle cattive.
a) Anzitutto, deve sanzionare attività e pubblici esercizi ove siano accertare violazioni delle norme in materia di tutela della salute e sicurezza o siano riscontrate gravi violazione delle disposizioni in materia di regolarità contributiva e retributiva, revocando la concessione del dehor. Non basta più, infatti, il metro della sicurezza e dell’ordine pubblico
(per questo presenteremo richieste di emendamento al regolamento suolo pubblico).
b) In secondo luogo, svolgendo la funzione di facilitatore della negoziazione già assunta in occasione della sottoscrizione della carta dei diritti del lavoro digitale, deve promuovere, insieme alle parti sociali, una contrattazione di strada, che consenta di fruire di vantaggi e benefici (deroghe al regolamento sugli orari, vantaggi fiscali, sconti tari…) solo ai titolari di attività che garantiscano standard qualitativi dell’occupazione più elevati rispetto a mero rispetto delle disposizioni di legge (predilezione del part-time verticale sul lavoro intermittente; predilezione del lavoro dipendente sulla collaborazione autonoma; sottoscrizione di contratti di durata superiore a 3 o 6 mesi). Con riguardo a questo secondo elemento, si potrebbe prevedere un marchio sociale o una certificazione etica urbana che potrebbe anche rappresentare un vantaggio competitivo.

2. Stop all’impiego incontrollato di lavoro gratuito.
Serve una carta che tuteli il lavoro e la città anche in relazione agli eventi e alle attività culturali. Un fiore all’occhiello della città è indubbiamente rappresentato – ed è auspicabile che lo sia sempre più – dallo sviluppo del settore cultura. Tuttavia, in tale settore, oggi, a Bologna (ma il discorso potrebbe allargarsi anche ad altri contesti) non manca il lavoro: manca la volontà di retribuirlo. Il lavoro a titolo gratuito, specialmente giovanile, rappresenta un fenomeno scandaloso, che si annida anche (e soprattutto) nel mondo della cultura. Nella città che ha prodotto e sottoscritto la prima carta dei diritti dei rider, abbiamo il dovere di moltiplicare esperienze come quella in ogni contesto ove tale intervento risulti utile e possibile.
a) È urgente più che mai che la città si doti di una Carta che regoli l’impiego del lavoro nei settore culturale che spesso, se non sempre, comporta la concessione di suolo pubblico o beni comuni.
b) È urgente una Carta che specifichi a quali condizioni sia ammissibile l’impiego del lavoro a titolo gratuito, nei festival e negli eventi culturali.
Non possiamo più assistere ad annunci che chiedono competenza e esperienza per mansioni cruciali come l’allestimento degli impianti audio a titolo gratuito. Che il comune si doti di una carta da far sottoscrivere agli organizzatori di questi eventi. Non si può più dare spazio pubblico a chi non rispetta le competenze e il territorio.

3. Proteggere l’economia urbana.
La Carta dei rider coinvolga e tuteli anche i ristoratori. A sei mesi dalla firma della carta, possiamo dire che c’è ancora molto da fare. Benché il tavolo promosso dal Governo abbia, per forza di cose, rallentato il percorso municipale, è necessario riprendere il cammino per ampliare l’ambito e il grado di applicazione della Carta. In occasione del primo monitoraggio, riterremmo utile allargare l’ambito dei soggetti coinvolti dalla Carta non soltanto con riferimento alle piattaforme, ma anche attraverso un pieno coinvolgimento dei ristoratori e delle loro rappresentanze. Questi ultimi potrebbero impegnarsi ad intrattenere rapporti contrattuali con le sole piattaforme sottoscrittrici, ma dovrebbero anche godere di alcuni benefici. La natura oligopolista del food deliver, infatti, sta restringendo sempre più non solo il margine di profitto, ma anche l’autonomia dei ristoratori nella gestione del lavoro. Così, se da un lato è diventato praticamente impossibile per i ristoratori fornire il servizio fuori dalle piattaforme, dall’altro si viene a sviluppare un rapporto di dipendenza che sta trasformando alcuni pubblici esercizi in ristoranti esternalizzati delle piattaforme, con scarsa o nulla possibilità di negoziazione. È dunque necessario proporre un accordo territoriale, inspirato ai principi della carta, che superi gli accordi individuali e che si faccia garante della sostenibilità sociale del food delivery anche rispetto ai ristoratori.

Una chiosa finale. Avete mai giocato a tabù?
Bene. Ci auguriamo che l’abbiano fatto anche gli assessori Lepore, Lombardo e Aitini.
Se la politica vuole riguadagnare dignità agli occhi dei cittadini e delle cittadine, c’è una frase che dev’essere bandita, che deve diventare impronunciabile, che deve diventare tabù: questa frase è “non si può fare”.


LA CASA NELLA “CITTÀ DEL CIBO”, DEL TURISMO, DELLA GIG E SHARING ECOMOMY
Airbnb e le piattaforme per l’affitto turistico e a breve termine
Secondo uno studio dell’associazione On Data riportato dal Sole 24 Ore, sulla sola piattaforma Aribnb esiste un ristretto numero di soggetti, circa l’1% a livello nazionale, riconducibili ad aziende e che gestiscono più di dieci alloggi.
Uno studio realizzato da Andrea Gentili, Filippo Tassinari e Andrea Zoboli per l’Istituto Cattaneo stima che a Bologna solo il 55% degli annunci su Airbnb facciano siano annunci unici. Il resto degli annunci è offerto da profili con più di una proprietà e alcuni profili, come denunciato dalle associazioni studentesche, gestiscono decine di annunci configurandosi come gestori ‘para imprenditoriali’.
A nostro avviso non è più possibile ignorare la grande differenza fra i piccoli host, che condividono sulle piattaforme una stanza o un proprio appartamento, e chi gestisce per altri decine di appartamenti o chi possiede decine di appartamenti.
Altro aspetto problematico è che solo 1 alloggio su 10 offerti è dichiarato secondo le regole comunali.

Per questo chiediamo la semplificazione delle procedure per la dichiarazione di messa a disposizione del proprio alloggio per affitti di breve durata (SCIA) presso gli uffici comunali e, a fronte di questa semplificazione, controlli più stringenti e raffronto fra gli alloggi presenti sul mercato e le relative dichiarazioni, nonché di limitazione delle multiproprietà.
Per fare questo si potrebbe:
individuare un limite di appartamenti che lo stesso host possa mettere sulle piattaforme.
obbligare le piattaforme (tutte, non solo Airbnb) a pubblicare sui propri portali solo annunci in regola, ovvero con il codice di chi ha presentato dichiarazione SCIA presso gli uffici comunali e quindi paga correttamente le tasse.
In questo modo si ridurrebbe l’evasione fiscale e si potrebbe più equamente redistribuire la ricchezza che deriva da questa fetta di mercato. Ad oggi il Comune riscuote la tassa di soggiorno da Airbnb, che può provenire anche da annunci di proprietari che evadono le tasse e non hanno denunciato nulla al Comune stesso, è un paradosso.

Naturalmente su questo fronte si tratta di collaborare con la Città Metropolitana e la Regione per individuare strumenti efficaci.
[Per esempio, in Lombardia una delibera ha previsto che, dallo scorso primo settembre, per chi affitta stanze o interi appartamenti su piattaforme scatta l’obbligo di indicare sugli annunci di pubblicità, promozione e commercializzazione un codice identificativo di riconoscimento (Cir), con multe da 2500 euro per chi non si mette in regola. In pratica attraverso il codice si garantisce che l’host ha dato comunicazione di inizio attività al Comune di competenza e ha adempiuto a tutti gli obblighi previsti. Tra gli adempimenti previsti dalla nuova legge regionale per le case e appartamenti per vacanze oltre alla comunicazione di inizio attività e all’ottenimento delle credenziali per la trasmissione dei dati turistici, i gestori devono, tra l’altro, anche accreditarsi per la denuncia degli ospiti in base alle indicazioni dell’autorità di pubblica sicurezza, rispettando alcuni standard qualitativi essenziali, oltre ovviamente alle norme in materia fiscale e di sicurezza].

Le proposte messe sul tavolo da Coalizione Civica per la regolamentazione di questo fenomeno fanno parte di un più ampio ragionamento sull’abitare, concretizzato in tre ordini del giorno che stiamo discutendo in Commissione Consiliare e che si possono ampliare a arricchire.
Le azioni devono essere coordinate e tendere ad alleviare il disagio abitativo agevolando gli affitti di lungo e medio periodo e mettendo a disposizione il patrimonio pubblico. A questo scopo proponiamo la “redistribuzione” di quanto incassato con la tassa di soggiorno, aggiungendo sui servizi per l’abitare una quota pari di bilancio dedicata ad azioni innovative.