di Mauro Chiodarelli
Vorrei fare alcune riflessioni sul tema della gestione dei lavori pubblici e delle manutenzioni perché di questo mi sono occupato per diversi anni. Credo che lo svuotamento delle funzioni, prima, e lo smantellamento, poi, di questi servizi, non sia solo il frutto di una classe politica, sia a destra che a sinistra, omologata al pensiero liberista, per cui solo privato è bello, ma di un decadimento etico che genera attraverso l’esternalizzazione di lavori e servizi possibilità di ritorni indiretti e diretti, e giustifica la deresponsabilizzazione verso il funzionamento di certe attività.
Pensare ad un sistema pubblico dei servizi vuol dire ricreare un’organizzazione in cui il privato sia di supporto al pubblico e non viceversa.
Occorre stabilire cosa e come sia utile gestire direttamente, indirettamente od in cogestione con altri soggetti, avendo come obiettivo il raggiungimento del risultato socialmente ed economicamente più vantaggioso, che non è il meno costoso in termini strettamente di moneta.
Per farlo dobbiamo innanzitutto comprendere quale è lo stato di fatto del Comune di Bologna sia in termini di risorse economiche che umane e per queste ultime di quali professionalità disponiamo. Perché uno degli effetti dello svuotamento della macchina pubblica e delle esternalizzazioni è stato quello di una progressiva riduzione delle conoscenze e delle professionalità, per alcuni versi anche delle responsabilità, che va anch’essa ricostruita dando dignità a chi opera nel servizio pubblico.
Quante sono, per impegno economico, e quali, per qualità, le opere pubbliche che vengono progettate e dirette internamente e quante esternalizzate, ricomprendendo in ciò anche la finanza di progetto che sottrae quasi totalmente l’opera al controllo pubblico, con costi sproporzionati per la comunità?
Per quanto riguarda Bologna risultano esternalizzati i servizi (con contratti di durata variabile):
- Strade e segnaletica
- Illuminazione pubblica e semafori
- Patrimonio pubblico
- Verde pubblico
- Impianti sportivi
- Fognature e depurazione (passate ad Hera)
- Acqua e gas (Hera)
- Raccolta rifiuti (Hera)
- Cimiteri (BSC s.r.l. – 51% Comune 49% SPV )
- Trasporto pubblico (TPER)
Praticamente tutto.
Appare chiaro come pianificare il rientro sia problematico; uno strumento potrebbe essere quello di ordinare il rientro dei servizi per tempi di scadenza dei contratti di appalto.
Non mi addentro nelle specificità dei problemi, penso debba essere oggetto di approfondimento di uno specifico gruppo di lavoro.
Preferisco fare alcune considerazioni di ordine generale.
La politica nazionale si muove per uno smantellamento progressivo delle strutture e dei servizi pubblici.
Nel campo dei lavori pubblici, una delle ultime decisioni è quella di eliminare l’incentivo alla progettazione, che seppur risicato era un riconoscimento a chi, all’interno della pubblica amministrazione, si assumeva la responsabilità della progettazione e direzione lavori di un’opera pubblica: La motivazione è quella di rinunciare alla progettazione per migliorare programmazione e controllo. Quale miglior controllo ci può essere su un’opera se non quello di progettarla e dirigerne l’esecuzione? E dall’altra parte se uno non progetta o dirige i lavori, come può controllarne il valore e la qualità di esecuzione?
E questo non vuol dire che non c’è posto per i liberi professionisti, ma qui apriremmo un altro versante.
Le risorse disponibili per le opere pubbliche e le manutenzioni sono sempre meno; l’art. 12. della legge 10 del 1977 (legge Bucalossi) dettava: “I proventi delle concessioni e delle sanzioni di cui agli articoli 15 e 18 sono versati in conto corrente vincolato presso la tesoreria del comune e sono destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, all’acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali di cui all’articolo 13, nonché, nel limite massimo del 30 per cento, a spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale”.
Cioè gli oneri che venivano incamerati a seguito di interventi edilizi dovevano essere utilizzati esclusivamente per la realizzazione di strade, parcheggi, verde e sotto servizi, quando non direttamente realizzati dal lottizzatore, o nelle zone già edificate sprovviste, così come scuole, case popolari, edifici di servizio in genere e per la manutenzione straordinaria e ordinaria del patrimonio comunale.
Per capirci: pulire una caditoia stradale o tinteggiare una porta è manutenzione ordinaria, cambiare una botola o una porta è una manutenzione straordinaria.
Il legislatore aveva capito che l’espansione della città portava con se costi rilevanti di mantenimento e dotava i comuni di una idonea fonte di finanziamento.
Questa dotazione è stata nel tempo saccheggiata.
Dal 2008 gli oneri legati al permesso di costruire possono essere destinati per il 50% al finanziamento della spesa corrente (servizi, stipendi, interessi finanziari ecc.) per il 25% alle manutenzioni ordinarie e per il 25% a manutenzioni straordinarie e nuove realizzazioni.
Questo vuol dire, ad esempio, che si sono gonfiati i servizi, togliendo però risorse al mantenimento dei contenitori di questi servizi, così come per il mantenimento di strade, verde, ecc. ma anche per la costruzione di case popolari, o di asili, di investimento in genere.
E’ una situazione drammatica, esplosa, in tutta la sua insostenibilità, con la crisi dell’edilizia, che determina un conflitto all’interno della macchina pubblica, perché riportare le risorse disponibili al loro utilizzo originale richiederebbe di sacrificare i servizi avviati con quei soldi.
Bisogna perciò perseguire nuove strategie in grado di alleggerire l’impegno della macchina pubblica, che passano necessariamente attraverso il coinvolgimento dei cittadini nella preservazione e cura dei beni pubblici, nel controllo dell’opera pubblica e privata, nella progettazione delle trasformazioni della città, ricostruendo un senso civico dimenticato o mai acquisito e restituendogli potere decisionale.
Scellerato e populista è stato credere che la Pubblica Amministrazione potesse sostituirsi in tutto e per tutto al cittadino nella gestione della cosa pubblica, salvo poi essere costretti ad ingigantire la pressione fiscale per cercare di mantenere la baracca.
Capiamoci, non si tratta di dire al cittadino “ci dispiace, abbiamo sbagliato, arrangiati”, bensì partendo dall’ammissione della propria debolezza, di costruire con i cittadini un nuovo possibile assetto. E dobbiamo farlo riconoscendo al cittadino il “giusto utile”.
Mi spiego: negli anni novanta fu iniziata la raccolta differenziata con l’obiettivo di recuperare un utile scarto, premiando il cittadino per il suo impegno con un consistente alleggerimento della tassa del rusco; in alcuni comuni questa riduzione ha superato il 50% della tassa originale.
Esattamente il contrario di quello che succede da noi ormai da anni.
Indispensabile recuperare il ruolo dei quartieri, anello di congiunzione tra cittadino ed amministrazione (questo è tanto più valido in una prospettiva di città metropolitana), dotati di risorse, personale e autonomia operativa, in grado di fornire risposte rapide ed efficaci e di gestire nuove forme organizzate di mantenimento del territorio.
Bisogna rivedere le modalità di esecuzione di nuove opere, comprese le urbanizzazioni, siano esse di iniziativa pubblica o privata, esplicitando chiaramente i costi di mantenimento indotti, per lo più non valutati o nascosti, per essere consapevoli della sostenibilità dell’intervento. La qualità dell’opera, oltre alla sua estensione, è un elemento fondamentale nella determinazione dei costi di mantenimento e per questo bisogna definire degli standard qualitativi a cui tutti devono attenersi.
Va abbandonata la pratica della finanza di progetto, una strada seguita per aggirare apparentemente il problema, colpevolmente legalizzata e spinta dalla normativa statale.
Cito: “La finanzia di progetto si realizza quando un ente territoriale (Comune, Regione, Stato, ASL etc.) decide di aver bisogno di un’opera ma, poiché impedito da vincoli di bilancio o da eccessiva esposizione al debito o altri motivi, decide di affidare ad un privato la progettazione, la costruzione e la gestione dell’opera stessa, in cambio della concessione di utilizzo (o di un canone d’affitto) per un numero di anni sufficienti affinché il privato possa ripagare la spesa e guadagnarci il giusto. Il costo di investimento può essere così classificato “fuori bilancio”, senza impatto sui conti pubblici (e sui Patti di Stabilità) degli stessi enti locali promotori.”
Secondo le normative europee, i partenariati pubblico-privati sono davvero tali solo se c’è un vero trasferimento ai concessionari privati di almeno due dei tre seguenti rischi:
1) costruzione;
2) mercato (introiti da tariffe o pedaggi);
3) disponibilità (canoni variabili pagati dalla Pa in base a parametri di qualità).
In realtà nella maggioranza dei casi questo non accade, perché in realtà il privato non rischia niente, anzi realizza consistenti guadagni, mentre si crea un pesante indebitamento del pubblico: secondo le stime il costo della nuova sede del Comune di Bologna era di 70 milioni di euro, ma con un affitto (che comprende è vero anche i costi di mantenimento) da circa 9,5 milioni di euro per 28 anni arriveranno ai costruttori circa 250 milioni di euro; l’unico rischio è che il Comune fallisca.
Infine un argomento che può sollevare mugugni.
Noi sappiamo che l’economicità dei servizi esterni viene spesso resa possibile da modalità ed orari di lavori ampiamente peggiori di quelli previsti nel pubblico impiego, anche a discapito della sicurezza, e da trattamenti salariali inferiori, spesso legati a contratti a tempo determinato.
Non vi può essere amore per la cosa pubblica da chi per la cosa pubblica viene sfruttato.
Non so come si possa operare in questa direzione, visto che i non contratti sono diventati lo strumento legale per l’occupazione in questo paese.
Quello che ci dovremmo impegnare a fare è però dimostrare che attraverso il lavoro tutelato, il rispetto della sicurezza, il rispetto della dignità di chi lavora è possibile garantire efficienza, qualità ed economicità del servizio pubblico.
Ma in questo bisogna essere disponibili a mettersi in gioco, a modificare le abitudini acquisite, ad accettare rimodulazioni degli orari di lavoro (necessari per la funzionalità di alcuni servizi), a parità di ore lavorate, a rivedere gli schemi organizzativi per la migliore valorizzazione di ogni soggetto coinvolto.
Nella mia esperienza ad opporsi a questi cambiamenti non erano i soggetti o le strutture coinvolte, ma bensì altre strutture e/o soggetti di altre strutture, amministratori e sindacati, perché il cambiamento anche se in positivo spaventa chi vive di rendite di posizione; con questo dovremo fare i conti.
L’amministrazione pubblica è piena di donne e uomini che quotidianamente ci mettono l’anima per permettere a questa macchina di funzionare, sopperendo alle carenze di chi per scelta o frustrazione ha deciso che non ne vale la pena; a queste donne ed uomini una nuova classe politica deve dare il suo appoggio.
La trasformazione della macchina comunale richiederà anni, sicuramente oltre un mandato, per cui se pensiamo di poter governare, siamo chiari in questo con i cittadini ed individuiamo poche cose su cui abbiamo possibilità di riuscire, da porci come obiettivo.
Perdere le elezioni non è un bene, ma vincerle e non riuscire a governare sarebbe un danno ancora peggiore.
Questo intervento è una delle relazioni introduttive all’iniziativa “La città pubblica. Idee e proposte per la centralità del sistema pubblico nel governo della città”, organizzata dalla Coalizione civica per Bologna il 14 dicembre 2015]