Tzvetan Todorov: “E’ la paura dei barbari che rischia di renderci barbari”.
I tassi degli omicidi italiani, con l’eccezione di Calabria, parte della Campania e della Sicilia, sono più bassi di quelli di molte realtà europee, in un contesto continentale segnato da un numero di assassinii a sua volta inferiore a quello statunitense. Certo, è innegabile che il numero di furti nel nostro paese si mantenga da decenni più elevato rispetto agli anni sessanta del secolo scorso; tuttavia, una tale circostanza non è sufficiente a giustificare la potente retorica allarmista e securitaria che condiziona il discorso pubblico da venti anni a questa parte.
La paura orienta e legittima comportamenti disumani: piuttosto che costruire nuove condizioni per una convivenza accettabile, si tende a scivolare verso una forma di Stato penale dell’emergenza.
In questo scenario si chiede alla politica di essere protetti, in realtà inizia a prendere forma la convinzione che l’unica strada praticabile sia il farsi giustizia da soli.
E’ indubbio che precarietà esistenziale, solitudine e incertezza davanti al futuro amplifichino i timori. Chi è debole o vive una condizione di fragilità, temporanea o permanente, percepisce con maggiore allarme ogni piccola minaccia alla propria quotidianità. Altri elementi che accentuano la paura sono la rottura delle relazioni sociali, l’erosione dei sistemi di welfare e dei diritti di cittadinanza e ancora l’anonimato e l’individualismo che isolano impedendo di costruire quelle reti amicali e di vicinato che rappresentano il miglior antidoto all’ansia e all’angoscia. Ci muoviamo così in una realtà sempre più tesa e aspra, popolata da individui e comunità incapaci di conoscersi, comprendersi e relazionarsi. Si sperimenta una insicurezza di fondo che impedisce di accettare la fisiologica conflittualità del vivere sociale, reagendo con violenza a ogni minimo atto di prevaricazione, a ogni contraddizione
Se è vero che ogni paura è legittima in quanto tale, dobbiamo però chiederci con autenticità e rifuggendo ogni desiderio di sfruttare magari a scopi propagandistici, questo sentimento diffuso, quali siano le fondamenta della paura: il nostro agire dipende dalla collocazione di noi stessi nel contesto nel quale viviamo e dalle relazioni che rispetto a tale contesto instauriamo.
Dobbiamo partire dal fatto che i luoghi che abitiamo sono spesso inadatti ad accogliere le vite di ciascuno in una dimensione relazionale e che la configurazione degli spazi urbani è a sua volta il frutto di politiche di cittadinanza incapaci di includere le moltitudini di «individui atomizzati» e di «gruppi disomogenei» che si trovano ad abitarli: «Rom, stranieri, homeless, sofferenti psichici, malati di Aids, omosessuali, donne abbandonate, adolescenti angosciati, ma anche coppie giovani in cerca di un’abitazione o lavoratori precari sono tutti esempi concreti, assai diversi tra loro e non sovrapponibili per statuto, di quelle fragilità che coabitano ammassate e confuse, e che si trovano a fronteggiare sentimenti di rabbia, disperazione e impotenza ed episodi di violenza».
Così si crea una precarietà dei legami sociali per effetto della quale sguardi e gesti degli altri possono diventare minacciosi di per sé, e per effetto della quale ogni situazione può diventare conflittuale e distruttiva anche senza esserlo in sé.
Noi crediamo di poterci difendere dai pericoli della vita quotidiana non tanto attraverso nuove forme di architettura urbana, segreganti ed escludenti, ma attraverso una nuova declinazione della paura: da sentimento di esclusione a pietra fondante della costruzione di nuovi percorsi fondati sulla fratellanza, sulla reciprocità, sul reciproco riconoscimento di ogni altro come uguale a sé, fuori da logiche tanto utilitaristiche quanto puramente caritatevoli.
Si tratta insomma di immaginare società decenti e civili, che contengano cioè regole tali da impedire l’umiliazione dei singoli e della loro dignità (vuoi da parte delle istituzioni, vuoi da parte di altre persone); e per costruire società simili occorre non solo riconoscere diritti e lottare per mantenerli, ma anche e soprattutto costituire le condizioni necessarie perché ciascuno possa costruirsi vite dignitose, realizzando le proprie capacità e potenzialità.
È dunque un progetto politico democratico quello che occorre ad una grande città come Bologna, che tratti la paura non come una gabbia in cui rinchiudersi ( è così infatti che si finisce: crediamo di tenere fuori di casa nostra gli altri ma in realtà ci ingabbiamo noi), ma come un punto di vista ed un’ opportunità da cui partire per fare della propria città un luogo nel quale ciascuno si senta bene, come a casa propria.
di Paola Ziccone