Spesso, per argomentare, conviene partire dai numeri. Vediamo una scheda sintetica dei numeri della nostra università, come ordine di grandezza. Il bilancio è di 750 Milioni di Euro. Gli studenti, se consideriamo ogni categoria, 89 mila. I docenti strutturati 2.800, di cui 800 ricercatori. Il personale ATA ammonta a 3.000 unità. I così detti “precari”, cioè assegnisti, 1.200. In conclusione, parliamo all’incirca di centomila persone. Dobbiamo poi aggiungere l’indotto. Con un patrimonio edilizio secondo forse solo a quello della Chiesa, l’università annovera svariate decine di palazzi, mezza via Zambini, Irnerio, il plesso Belmeloro, Ingegneria a porta Saragozza, Ozzano, il Lazzaretto, il policlinico, ecc. (qui parliamo solo di Bologna, e prescindiamo dagli altri campus, quelli della Romagna). Bene, quante persone, quanto indotto si forma attorno a questo imponente patrimonio? Quanti elettricisti, idraulici, falegnami, ditte di pulizia, ecc. trovano qui la loro attività prevalente, quanti ce ne vogliono anche per la sola manutenzione?
Ecco, probabilmente queste cose sono più o meno note a tutti, ma magari qualcuno non ci pensa, o non le mette in fila. Una struttura ipertrofica rispetto ad un’area comunale (non parliamo qui della “città metropolitana”) di circa 400 mila abitanti. Vale a dire, circa una persona su quattro ha a che fare, a qualche titolo, con l’università. Ed economicamente, mentalità oggi prevalente, quanto sposta tutto ciò? Del bilancio abbiamo detto. Ma questa massa di oltre centomila persone, quanto sposta? A braccia, ognuna di esse mangia, dorme, studia, lavora, va al cinema e al ristorante… Vogliamo dire che, per difetto, ognuna sposta , diciamo, 1.000 Euro al mese? Fa un miliardo e 200 milioni l’anno…
E’ facile capire cosa vuol dire questo per la città di Bologna: semplicemente il benessere. Che, indirettamente, si riflette su tutti, anche sul commerciante che vende cravatte, che come è noto gli studenti di oggi non comprano. La linfa dell’Euro si incanala in ogni dove, e il risultato è evidente. Ma c’è un po’ di rumore in piazza Verdi…
E’ facile capire che, su questi dati, non molto incidono gli studenti bolognesi. La nostra fortuna è che si viene a Bologna per studiare; da tutta Italia; da tutta Europa; persino dal resto del mondo. Da tanti anni, dai tempi di Dante, che studiò qui, da ancor prima. Vogliamo invertire la tendenza, farla cessare? Cosa diventerebbe Bologna? Ecco, questo ragionamento dovrebbe farlo anche il nostro amico bolognese, doc, quello che vende le cravatte, e che ritiene che tanto da lui gli studenti non comprano; ma qualcun altro sì. Perché se Bologna si trasformasse in un paesone non comprerebbero cravatte nemmeno i bancari, che ne hanno l’obbligo per la divisa, semplicemente perché le banche andrebbero altrove. Ma c’è un po’ di rumore in piazza Verdi.
Va inoltre considerato un dato di fatto. Esistono due tipi di università, quelle costruite in tempi recenti, su spazi progettati ad hoc, le università campus, come la stragrande maggioranza delle università americane, o come le nostre di Salerno, ad esempio, o della Calabria; e università dalla storia plurisecolare, che sono cresciute intessendosi nel corpo vivo della città. Inutile dire a quale categoria appartiene Bologna; che all’Archiginnasio, in piazza Maggiore, prosperò per seicento anni, e si spostò a palazzo Poggi solo alla fine del 1600.
Vediamo allora di entrare nel merito di questa piazza, che ormai fa parlare tutti i bolognesi, più di Tienanmen e di place de la concorde. Troppo spesso a sproposito. Si parla ormai ogni giorno, sulla stampa locale, del così detto “degrado”. Si lamentano fatti certamente spiacevoli, dallo sporco fino allo spaccio. Senza dubbio cose riprovevoli, indecorose, cui va posto rimedio. E, come per la nazionale di calcio ogni buon italiano ha la sua formazione, così ogni cittadino ha la sua ricetta magica. Chi basandola sui vigili, chi sui carabinieri e le forze dell’ordine, chi sulle ordinanze per gli esercenti e così via. Chi chiama in causa la Questura, chi il Comune, chi il Rettorato. Naturalmente questi sono attori da cui non si può prescindere; ma, noi crediamo, nessuno di essi ha la bacchetta magica, né risolverebbe il problema, soprattutto da solo.
Allora, visto che anche noi siamo cittadini, siamo legittimati a fare a nostra volta la nostra nazionale.
La prima considerazione rimanda ad una constatazione empirica. E’ molto facile verificare una banalità, che può sfuggire, tuttavia, a chi non abbia esperienza diretta della zona. E cioè: i cinque punkabbestia che gravitano perennemente sui gradini del teatro Comunale, o sui gradini prospicienti via del Guasto, non sono certo iscritti all’università. I sei o sette spacciatori che tutti conosciamo ormai de visu non sono certo studenti. E fanno undici o dodici persone in tutto. Non bastano polizia, carabinieri, guardia di finanza, vigili urbani per far fronte a questa congerie? Dobbiamo chiamare far intervenire l’esercito, l’aviazione, la folgore, i lagunari? Il problema vero è che si fa di ogni erba un fascio, confondendo le manifestazioni, senza dubbio a volte esuberanti, degli studenti, con i protagonisti della microcriminalità. Che non sono 300 e nemmeno 89 mila, ma, come s’è detto, dodici, e ben conosciuti. Si continuano a ricomprendere sotto il termine generico di “degrado” due fenomeni affatto diversi, e con protagonisti diversi, che ovviamente si rafforzano a vicenda, ma che non hanno niente a che fare l’uno con l’altro. Un matematico direbbe: si sommano le mele con le pere. Questa è la prima cosa da capire, per risolvere il problema. Come se un paziente ha due malattie, il buon medico deve trovare le giuste cure, che difficilmente saranno lo stesso farmaco. Non si cura il mal di denti con lo sciroppo del la tosse. E piazza Verdi ha sia mal di denti che la tosse. E c’è del rumore in piazza Verdi…
Vediamo allora di affrontare le cose alla luce della loro naturale distinzione. Primo, c’è un problema di ordine pubblico. Ne conosciamo i contenuti e gli attori. Che cosa osta a che si proceda secondo la legge? Non crediamo sia difficile individuare i capi d’accusa, e, fatte le dovute verifiche, applicare la legge. Che vieta il non avere documenti, il tenere cani non censiti e soprattutto liberi, l’ubriachezza molesta, l’orinare in strada, lo spacciare droga. E per queste cose non dovrebbe essere difficile ottenere un foglio di via, o una dimora coatta, o quant’altro. O questi provvedimenti sono facili da ottenere solo quando gli studenti contestano un ministro, o Salvini?
Poi c’è la questione “studenti”. Il fenomeno è chiaro, a chi abbia un po’ di dimestichezza dell’ambiente e del territorio. I fuori sede, la maggioranza come si capisce chiaramente, non hanno radici nel territorio in cui abitano. Il punto di ritrovo, di socializzazione, di aggregazione non può che essere la zona dell’Università. Questo è inevitabile. Che i ragazzi di vent’anni poi facciano rumore, o eccedano in certi comportamenti, è qualcosa che attiene alla natura umana. Allora come distinguere ciò che è fisiologico dai comportamenti devianti? Ma va detto che un certo costo si deve pagare, e si chiama tolleranza; e questo vale anche per il nostro venditore di cravatte, che se ne deve fare una ragione.
Qui il discorso è di metodo. La repressione è inutile. Può dare un’apparenza di miglioramento momentanea, che svanisce in breve e riappare il problema. Perché gli studenti sono il principale nostro patrimonio, quello che ha reso possibile il formarsi di quell’altro, quello dei palazzi, del lavoro, dei 750 milioni. E allora essi non possono essere vissuti come un semplice disturbo, come una pletora di individui cui vendere un posto letto in nero, e spennare il più possibile. L’effetto della repressione è facile da immaginare. Come per il proibizionismo, ci sarà sempre un Al Capone che distilla l’alcol e si arricchisce. E allora sì che si esce dalla legge, e si aumenta il degrado. Una questione di metodo, si diceva. O di inversione di percorso: prima si devono creare le condizioni per il rispetto della legge, e poi si reprime la devianza; non viceversa, come ahimè molti propongono. Seguendo questo errato percorso si sposta solo il problema di qualche tempo, ma esso non può non riaffiorare.
Quale la soluzione vera? Aprire spazi di socializzazione non dovrebbe essere difficile, pensando alla disponibilità congiunta del Comune e dell’Alma Mater. Facciamo un esempio. Riunendo i quartieri di Santo Stefano e di San Vitale, si liberano spazi nella ex sede di quest’ultimo, in vicolo Bolognetti. C’è un ampio cortile che si presta ad ogni forma di manifestazione, autogestita, chiassosa, ma che non disturba nessuno. Anni fa un’idea simile venne al Rettore Dionigi, che tuttavia puntò su una localizzazione assolutamente inadeguata: un capannone alle Roveri! Fu proposto ai ragazzi di Bartleby, e alle altre organizzazioni studentesche. Un non senso: gli spazi o sono in zona, o sono una via inaccettabile. Quand’anche, per assurdo, fossero accettati, la maggior parte dei fuori sede continuerebbe a presidiare piazza Verdi, non si muoverebbero di un metro.
D’altra parte, tanta solidarietà ai (pochi) residenti, agli esercenti della zona, ai fruitori a vario titolo. Ma quando c’è un debito, qualcosa va pur pagato. D’altra parte, se spostassimo gli studenti altrove, ammettiamolo per assurdo, quanto sopravviverebbero gli esercenti, a chi venderebbero? Ci sono altri luoghi, ed altre attività che producono rifiuti, e disagi. Pensiamo ad esempio allo storico mercato della piazzola. Si veda come è ridotta la zona, piazza VIII agosto in primis, il sabato sera. E i camion dell’Hera puliscono assai rumorosamente tutta la notte. Ma nessuno parla di “degrado”; per carità, non ne vogliamo certo essere noi a parlarne per primi. Ma vogliamo notare che, a fronte di una attività commerciale ci si atteggia in modo ben diverso, nel sentire collettivo, rispetto alla cittadella della cultura. Un segno dei tempi?
Un altro dato essenziale. La zona è mal servita. La chiusura totale di via Zamboni ha creato un plesso su cui insistono migliaia di persone assolutamente mal servito. Non c’è un autobus. Non c’è una farmacia. Non c’è un bancomat. Non c’è un taxi.
Il territorio va programmato, urbanisticamente, con servizi adeguati.
Perché, per nostra fortuna, ci sia ancora del rumore in piazza Verdi.
Maurizio Matteuzzi