L’intervento del nostro Federico Martelloni a vent’anni dalle giornate del G8 di Genova, nel corso dell’iniziativa AVEREVENTANNI – Il futuro è rivolta.

 

Dovrei parlare di Genova, ma mi pare d’aver finito le parole.
Dovrei parlare a braccio, come faccio sempre. Invece, oggi, non trovo parole da pronunciare. A fatica ne ho trovate da scrivere e da leggere.
È come se Genova fosse un fatto troppo pubblico – quasi-storia – e, a contempo, troppo privato per parlarne in pubblico.
Dovrei parlare come uno di coloro che c’erano, ma ho troppa paura del “racconto di chi c’era”. Da un lato mi pare una roba da reduci, da nostalgici, da vecchi. Dall’altro la mia verità mi pare una verità troppo parziale per essere vera. E troppo vera per essere parziale.
Preferisco parlare dei 20 anni. Del tempo e dello spazio. Della forza e della ragione. Da ultimo, anche della responsabilità.

Tempo
A 20 anni hai tanto tempo. Per bere, suonare, per correre, per scappare, far chiacchiere al bar, ridere, avere paura, stringere legami, azzardare scommesse. E non perché hai molto tempo davanti, come spesso di dice. Ma proprio perché hai molto tempo a disposizione. E basta.
Ebbene, alla generazione di Genova, che è poi una piccola parte della generazione dei nati negli anni 70 – una minoranza…ma certamente una “minoranza di massa” – capitò la ventura di incrociare quel tempo personale con un tempo collettivo. O meglio: di investire molto di quel tempo personale affinché si producesse un tempo collettivo. Un grande tornante della storia, esattamente a cavallo tra il secolo della politica e quello presente, con tenta – forse persino troppa fretta – di uscire dal Novecento.
Per certo, nella stagione compresa tra Seattle e Genova, i ventenni, innanzitutto, ebbero la netta impressione di fare la storia. Di non poter mancare un appuntamento con la storia. O, come sarebbe più corretto riconoscere, con una formula appena più sofisticata, di gettare la politica contro la storia, con l’obbiettivo di cambiarne il verso.

Spazio
Il discorso di Genova non era maturato in un tempo lungo. Piuttosto, era maturato in uno spazio grande.
Certo, contavano i movimenti ambientalisti degli anni ’80, le lotte contro il lavoro precario, le mobilitazioni contro i centri di detenzione per migranti… ma contava ben di più il discorso dei Sem Terra di Josè Bovè, il levantamiento Zapatista in Chapas, le lotte dei contadini indiani contro la Monsanto ecc.
C’erano giorni in cui, come i broker leggono il Finalncial Times di buon mattino i compagni e le compagne leggevano la Jornada per sapere cosa avesse detto il Subcomandante Marcos. O Liberatiòn per sapere cosa avesse fatto Bové, o la stampa internazionale per un’ultima intervista a Naom Klein.
Io non ho fatto l’erasmus…e mi son laureato con quasi 3 anni di ritardo…ma sono stato, come Marco, Nicola e tanti altri, in Chiapas, in Palestina, a Praga, a Nizza, a Berlino…
Forse solo il movimento contro la guerra in Vietnam aveva avuto quella caratteristica. Ma con una differenza: mentre, durante in Vietnam, ovunque si manifestava per quel che accadeva in Vietnam, durante il movimento dei movimenti si andava ovunque, e si condivideva una lotta, ovunque essa prendesse corpo.
Una marcia mondiale, fatta di molte tappe. Bisognava conoscere e accorciare il mondo, attraversandone i luoghi più importanti. E i luoghi più importanti erano quelli delle lotte.

Forza e ragione
Si dice spesso che le vicende di piazza oscurarono i contenuti di un movimento così grande da essere ribattezzato movimento dei movimenti.
Falso. La forza delle argomentazioni di allora è molto cresciuta, lo avete detto in tanti. Ma la politica non sa che farsene delle ragioni, quando manca la forza.
In tanti, anche allora, dicevano d’infischiarsene delle zone rosse, invece di assediarle. Erano tutte cazzate per chi aveva 20anni.
I ventenni del G8 di Genova decisero di sfidare il potere. L’appuntamento con la storia passava da lì. Questo era il prius. Il resto, i discorsi, i ragionamenti, le critiche erano, per un verso, retroterra diffuso, per l’altro un posterius.
Questo non ha nulla a che fare con l’ingenuità. Questo ha a che fare con la politica.
Esiste uno soritelling secondo il quale Genova fu la storia di tutte le peggiori Italie, riemerse all’unisono dai loro peggiori passati, per infierire sul corpo di una generazione che si affacciava per la prima volta, ingenua e curiosa, alla politica. L’immagine è suggestiva. Ma fuorviante.
Noi volevamo sfidare il potere. Forse non sapevamo quanto il potere possa essere violento quando si sente sfidato. Ma l’idea che, a Genova, si andasse a sfilare pacificamente per opporre al discorso degli 8 uomini più potenti del mondo un altro discorso parallelo rischia di rimuovere un elemento indefettibile di quella stagione: il conflitto.

Responsabilità
C’è un’ultima cosa che vorrei dire. La più problematica da mettere a fuoco, almeno per me.
Di norma si legano i vent’anni all’incoscienza, all’intemperanza, all’irresponsabilità. Ebbene, personalmente credo di essere assai meno responsabile oggi di quanto lo fossi allora.
Molti ventenni di allora – almeno quelli seduti dietro questo tavolo – sentivano sulle proprie spalle, tutto intero, il peso della responsabilità.
Chi ha partecipato al Genoa Social Forum era terrorizzato dal fatto che potesse comparire un bastone o potesse essere lasciata una bottiglia. Era come se ogni evento del genere aprisse una ferita nella trama che avevamo pazientemente tessuto, mediando le pratiche dei beati costruttori di pace con la disobbedienza civile delle tute bianche che avevano dichiarato guerra al G8, per tenere insieme tutto.
Dimenticavamo una regola d’oro: il movimento è senza punteggiatura. Illudersi che così non sia è un lusso da ragazzini politicizzati di buona famiglia. Io, allora, odiavo chi lanciava una pietra o spaccava una vetrina.
Mentre adesso, col senno di poi, se penso alle cariche di via Tolemaide, ai pestaggi della scuola Diaz, alle torture di Bolzaneto, alle cariche dei carabinieri coi bastoni di ferro, alle prove false, alle bugie dei vertici di polizia e carabinieri e alle loro promozioni, alla morte di Carlo e alla circostanza che per i fatti di Genova sono stati comminati più anni di carcere di quanti se ne comminano, di norma, per un omicidio – in ragione della presenza di una reato previsto dal codice Rocco (e da soli due altri stati europei su 27 mentre sono andate in prescrizione le torture di Bolzaneto) – …se penso a tutto questo mi viene solo voglia di spaccare tutto.

Ecco: avevo detto d’aver finito le parole mentre ne ho trovata qualcuna per spazzar via un po’ di luoghi comuni. Ma non fidatevi.

Se potessi permettermi di dare un consiglio ai ventenni di oggi, direi loro: non fidatevi di me.
Non fidatevi di chi è stato a Genova.
Fidatevi ancor meno di chi non c’è stato.
Insomma, non fidatevi di nessuno”.

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