Arresto del consumo di suolo a Bologna, piccole-grandi contraddizioni
Ultimo grido in fatto di slogan, l’arresto del consumo di suolo rischia di essere il nuovo grande alibi in nome del quale si annunciano ed anzi già si perpetrano scelte del tutto discutibili, come il Passante di Mezzo, per motivare il quale il Sindaco di Bologna ha mezzo sui piatti di un’immaginaria bilancia valutativa da una parte gli ettari di suolo agricolo risparmiati – dall’altra, la salute e la durata di vita di 90.000 suoi cittadini.
Il “bel gesto” non ha impedito però a Merola, soltanto poche settimane prima, di ringraziare concretamente e in anticipo il promoter dell’istituendo Museo delle arti e della scienza, da realizzarsi in luogo dello scheletrico relitto dell’Alfa Wasserman, nel Comune metropolitano di Sasso Marconi, con la previsione di 200 nuovi alloggi in zona non solo agricola, ma vivamente sconsigliata per l’edificazione in quanto classificata zona di protezione delle acque sotterranee di tipo D dal vigente Piano regionale di tutela delle acque, con l’esplicita indicazione per gli interventi anche di sola sostituzione di “preferire soluzioni volte al trasferimento delle superfici esistenti al di fuori della zona”.
Perché naturalmente ci sarebbe suolo e suolo – anche se il dato di fatto sfugge, nei meandri della complicazione procedurale, anche al disegno di legge nazionale approvato pochi giorni fa in prima lettura dalla Camera, che, singolarmente non dando alcuna definizione di “suolo”, parla invece di “superficie agricola, naturale e seminaturale”, spiegando che si tratta, oltre alle prevedibili zone agricole, delle “altre superfici, non impermeabilizzate” alla data di entrata in vigore della legge – peraltro con una serie di eccezioni dalle implicazioni rilevanti.
Tutto ciò a dispetto delle stesse premesse della relatrice di maggioranza dell’VIII Commissione, Chiara Braga, secondo le quali “parlare di consumo di suolo significa prima di tutto confrontarsi con una corretta definizione di quanto si intende con suolo, una definizione che renda conto della pluralità di funzioni e di valori che devono essere riconosciuti e attribuiti al suolo, e che renda conto dell’importanza di un approccio nuovo, non orientato esclusivamente alla valorizzazione del suolo ai fini edificabili”.
Ma il limite di fondo del disegno di legge sta nel fatto che il provvedimento non ha intenzionalmente ricercato alcuna relazione con il complesso delle normative urbanistiche esistenti, o con quello che dovrebbe essere il portato di decenni di cultura urbanistica nel nostro Paese.
Così, il consumo di suolo tende a diventare l’unico metro di valutazione degli interventi: nozioni quali le dotazioni territoriali, il carico urbanistico, le esclusioni riferite agli inquinamenti, non sono minimamente chiamate in causa. Come è stato detto, per questa legge potrebbe intendersi come “superficie agricola” anche un parcheggio pavimentato con autobloccanti…
La rigenerazione urbana senza abitanti
La legge però rimanda anche a un altro slogan “magico”, la “rigenerazione urbana”, ovvero “un insieme coordinato di interventi urbanistici, edilizi e socio-economici nelle aree urbanizzate, compresi gli interventi volti a favorire l’insediamento di attività di agricoltura urbana, … che persegua gli obiettivi della sostituzione, del riuso e della riqualificazione dell’ambiente costruito in un’ottica di sostenibilità ambientale, di contenimento del consumo di suolo, di localizzazione dei nuovi interventi di trasformazione nelle aree già edificate, di innalzamento del potenziale ecologico-ambientale, di riduzione dei consumi idrici ed energetici e di realizzazione di adeguati servizi primari e secondari”
Nascosti dietro locuzioni oscure e stereotipate come “interventi socio-economici”, o decisamente ambigue, come “adeguati servizi primari e secondari”, sbiadiscono fino a scomparire del tutto i reali abitatori delle “aree urbanizzate” di cui si parla.
Se da un lato la legge, accogliendo una sollecitazione del Forum “Salviamo il Paesaggio”, prevede che i Comuni eseguano “il censimento degli edifici e delle aree dismesse, non utilizzate o abbandonate esistenti”, è comunque impossibile ritrovare, nella stessa discussione parlamentare, alcun riferimento ai potenziali destinatari dell’intera attività edilizia e “cementificatrice” attuale, pregressa e futura.
La discussione parlamentare è molto precisa e aggiornata circa i numeri del consumo di suolo – ma evita del tutto d’interrogarsi sul perché, a fronte di tutto questo costruire e consumare suolo, permanga una situazione di pressione e di emergenza abitativa nelle principali aree urbane del Paese, una domanda che non viene richiamata né tantomeno quantificata.
Benchè in teoria esistano le statistiche relative agli edifici completati – non viene fatta alcuna considerazione in merito al destino degli interventi che danno luogo a tale massiccio consumo di suolo.
Quanti interventi, in questi ultimi anni che hanno visto la chiusura e il fallimento di migliaia di imprese operanti nell’edilizia, sono effettivamente stati completati?
Che siano abitanti o lavoratori, i cittadini restano invisibili.
La discussione sul disegno di legge è l’ennesima manifestazione di come il problema della casa, strumentalmente ancora presente nella demagogia e in alcuni atti stravaganti della stagione berlusconiana, sia invece scomparso dall’agenda politica dei governi retti dal cosiddetto centrosinistra.
La casa è diventato un problema “sociale”, nel peggior senso che si può annettere a tale definizione. Il problema della casa è rubricato tra i problemi di welfare, assieme ai problemi degli anziani non autosufficienti o dei giovani a rischio di dipendenza. Chi ha un problema di casa o chi ha perso la casa, anziché essere un soggetto bisognoso di una casa, è un soggetto bisognoso di “assistenza” – con tutte le implicazioni colpevolizzanti che a questa nozione si associano in tempi di entusiastica adesione al neoliberismo trionfante. La casa è questione che con l’urbanistica non ha più niente a che fare…
Alloggio minimo di cittadinanza
Eppure, anche in questo campo, come in quello del consumo di suolo, ci sarebbero esempi internazionali – al livello questa volta delle Nazioni Unite (The Right to adequate Housing, Ginevra 09, 14883, novembre 2009, 9) – cui fare riferimento, esempi che da tempo definiscono quello all’abitazione adeguata un diritto.
Il diritto alla casa, secondo le Nazioni Unite, porterebbe con sé alcuni corollari decisamente interessanti, quali il diritto alla protezione contro gli sfratti eseguiti con la forza, il diritto a non essere marginalizzati o ghettizzati per gruppi, il diritto a non subire politiche urbanistiche che rechino isolamento o eccessivo allontanamento dai luoghi in cui siano presenti opportunità lavorative, scuole, ospedali, e altri servizi pubblici, il diritto all’accessibilità ai mezzi di trasporto; il diritto alla salute e alla salubrità dell’ambiente, il diritto alla tutela della propria identità culturale…
La “casa”, così come il reddito, è dunque un diritto che pertiene direttamente la pienezza della cittadinanza, e come si parla di reddito minimo di cittadinanza, si dovrebbe parlare allo stesso modo di alloggio minimo di cittadinanza – con ciò non intendendo decisamente soluzioni modellate (sorprendentemente oggi) sui settecenteschi Alberghi dei Poveri promossi dai principi o dai signori, illuminati o in cerca d’indulgenza divina…
Perché tra i diritti legati al diritto a un’abitazione adeguata è in primo piano il diritto alla privacy, e le stesse proposte di cohousing che si propongono come risposta all’attuale accezione “sociale” della questione abitativa devono tenerne conto.
Conosciamo la situazione di emergenza abitativa in cui versa Bologna al presente.
La conosciamo soprattutto attraverso le immagini degli sgomberi, dei bambini messi per strada e delle cariche di polizia.
Ma stranamente, a differenza dei marciapiedi o del fantomatico tram che dovrà raggiungere il mangificio privato COOP-Eataly chiamato FICO, il problema casa per i sindaco Merola a Bologna non è una priorità.
Mentre il Comune, con provvedimenti di dubbio fondamento giuridico, provvede a colmare le inadempienze private in materia di urbanizzazioni primarie nel comparto dell’ex Mercato ortofrutticolo, o si accinge a contrarre un mutuo per ben 11 milioni di Euro per interrare gli elettrodotti ad alta tensione che gravano sul comparto dimenticato del Lazzaretto, là dove probabilmente un progetto più attento avrebbe potuto scongiurare o contenere questa spesa, quando si trova a dover fare edilizia sociale, il Comune va in project financing…
Non solo la casa, e segnatamente la casa popolare, non è una priorità – ma viene resa addirittura colpevole di generare indebitamento collettivo: questi “casi sociali” che sono per esempio i mutuatari pignorati per inadempienza – una situazione i cui risvolti umanamente impraticabili sono stati denunciati perfino dall’Unione Ufficiali Giudiziari – accumulano colpe su colpe.
La colpa di non avere un reddito o un patrimonio che consenta l’accesso alla casa in proprietà alle condizioni di mercato – in sintesi, la colpa di essere poveri.
E l’aggravante di pesare nel modo peggiore sulle finanze pubbliche…
In sintesi, Bologna è un luogo dove i diritti, reali o presunti, dei costruttori vengono prima di ogni altro; in subordine, viene il diritto del suolo a non esser consumato; infine, e con disonore, viene il diritto delle persone e delle famiglie ad un’abitazione adeguata…
In questo luogo sinistro, è stata trasformata Bologna.
Una città che è costituita per la parte più grande dell’urbanizzato da case nate come case popolari, a partire dal secolo dell’Unità d’Italia…